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Arrivano dal mare: 45 anni di teatro di figura, immaginando nuovi scenari

Mattia Zecchi - I burattini di Mattia|

Mattia Zecchi - I burattini di Mattia

Si è svolta dal 21 al 26 maggio, per la prima volta solo online per causa di forza maggiore, il festival Arrivano dal mare, giunto alla sua 45^ edizione.
Festival italiano più longevo di teatro di figura, Arrivano dal mare si sarebbe dovuto tenere dal vivo a Ravenna, organizzato dal Teatro del Drago.
Abbiamo chiesto a Roberta Colombo della direzione del festival e al critico e studioso Alfonso Cipolla, che lo ha seguito interamente, di raccontarcelo.

Roberta, facci un primo bilancio di questa edizione così particolare.
Date le ardue premesse, la situazione oggettiva venutasi a creare con il Covid-19 e la nostra natura di artigiani del teatro e dello spettacolo dal vivo, direi che è andata benissimo!
Questi mesi “di clausura” non hanno impedito, per fortuna, al pensiero e alla immaginazione di creare e di inventare formule nuove. E’ vero che non ci si poteva spostare fisicamente, ma il pensiero per nostra fortuna non si è covidizzato, cioè non è rimasto senza ossigeno, anzi si è mosso velocemente, immaginando scenari nuovi.
Un primo bilancio? Parto dal gruppo di lavoro EXTRA che si è creato intorno al festival e che ha accettato di mettersi in gioco in un terreno ancora sconosciuto, senza mai dubitare un attimo che quello che stavamo sperimentando avesse un senso, se non altro perché ogni cosa proveniva dall’immobilismo di tre mesi.
Il teatro, come si sa, è azione, e per il festival di azioni ne abbiamo pensate ben 58 divise in nove rubriche. Il festival è sempre stato la Festa degli artisti, e la mia e nostra grande riconoscenza va proprio a loro, che ci hanno inondato di proposte bellissime.
E’ stato davvero duro il cammino dal 24 febbraio al 21 maggio! Quante mail, quante proposte, quante ipotesi progettuali create, analizzate e poi scartate perché mentre nascevano erano già vecchie o impraticabili! Mai come prima d’ora, questi mesi sono stati liquidi… senza forma… senza argini e nello stesso tempo pieni di divieti e di regole.
Eppure, nonostante tutto questo, quasi tutti hanno voluto rispondere ai nostri accorati appelli, hanno scelto di giocare con noi e hanno prodotto dei contenuti originali per il festival. Importante è stato anche il ruolo delle istituzioni, soprattutto del Comune di Ravenna, che all’inizio ci guardavano con perplessità: “Ma il teatro di figura, i burattini, come possiamo immaginarceli online?”. Eppure dopo pochissimo tempo si sono fidati (e di questo ne siamo grati) e hanno deciso di stare al nostro fianco, di sorreggerci, sia psicologicamente che economicamente, e noi avevamo proprio tanto bisogno di non sentirci, di non essere, soli.
Credo che, molto semplicemente, abbia funzionato l’aver messo in discussione il concetto del teatro in video. O meglio, essersi posti il problema che il teatro non potesse essere sostituito in maniera assoluta e totale da video integrali degli spettacoli. Abbiamo così iniziato ad immaginare un mare di fili commessi tra di loro, i fili dei nostri computer, dei nostri device, come se fossero fili delle nostre marionette. Dovevano essere fili di ragionamento, che portassero a contenuti che chiunque (artista, studioso, appassionato, adulto, bambino), avendone la curiosità, ne potesse usufruire. In questo modo abbiamo pensato le rubriche.
Il giorno dopo la chiusura del festival avevamo raggiunto 38mila persone, 22300 visualizzazioni dei video e 12570 interazioni con i post.

Quali sono state le sezioni più importanti del festival?
Ci sono state 9 rubriche con 59 appuntamenti. Difficile qui elencarli tutti. Spettacoli in video tutti i giorni, presentazioni degli artisti in palinsesto, laboratori e workshop, cinque interviste a costruttori artigiani: Giorgio Gabrielli, Patrizio dall’Argine, Corrado Masacci, Ilaria Comisso, Mauro Monticelli. Una bellissima visita in casa di Maria Signorelli, otto incursioni digitali con altrettanti artisti diversi, sette episodi di Mariasole Brusa, Jovana Malinaric: non sono un soprammobile, messaggi dei nostri artisti dall’estero con Antamapantahou Marionette Theatre (Grecia), Mamulengo Presepada – Associação Cultural Camaleão (Brasile), Sofie Krog Teater (Danimarca), Mikropodium (Ungheria); Angela Forti che ha intervistato Mariasole Brusa (Bornghost, Coppelia Theatre), e il progetto g.g. (Le Nid, Consuelo Ghiretti, Francesca Grisenti) su spettacoli in fieri, oltre a incontri, visite guidate, presentazioni di nuovi progetti, un convegno internazionale: Sguardi nei musei di Teatro di marionette, pupi e burattini in Italia e in Europa.

Avete previsto nei mesi estivi spettacoli dal vivo?
Sì, la seconda parte del festival si svolgerà dal 6 luglio al 24 agosto, tutti i lunedì sera presso il teatro all’aperto che verrà ricreato a Classis, all’interno del Museo Archeologico di Classe che, causa Covid, diventerà per la Città di Ravenna il luogo dove confluiranno tutti i festival ravennati, fatta eccezione per Ravenna Festival che verrà realizzata alla Rocca Brancaleone.
Otto appuntamenti di spettacolo dal vivo… finalmente si ritorna in scena!!!

In autunno avete previsto ancora la sezione che si svolgeva a Gambettola?
In verità la parte del festival a Gambettola, Longiano Gatteo, prima del Covid era prevista a fine maggio, ma in accordo con le amministrazioni comunali stiamo ragionando se realizzare un fine settimana ad agosto inoltrato o ripetere l’esperienza autunnale in collaborazione con il corso Animateria. Sono decisioni che stiamo valutando e che saranno rese pubbliche entro poche settimane.

Avete in mente per la prossima edizione dei nuovi progetti?
Il prossimo anno sarà per la città di Ravenna l’anno delle celebrazioni dantesche, e anche noi stiamo riflettendo sull’argomento; i burattini riescono talvolta ad essere veramente irriverenti e anche folli, e messi in dialogo con il Sommo Poeta… beh’ potremmo vederne delle belle.
A ciò si affianca un’idea che aleggia da alcuni anni e che ruota intorno al ruolo dello scenografo, del costruttore che a volte è lo stesso artista e a volte no. Ci piacerebbe lanciare una sfida proprio a partire dai costruttori per immaginare insieme una Ravenna Dantesca brulicante di pupazzi, burattini, marionette… chissà… per il momento siamo ancora nella fase sogno-visione…

Alfonso Cipolla, quali momenti del festival ti hanno più colpito?
È il festival in sé ad avermi colpito, la sua capacità di ascolto e di dare risposte. Il periodo di confinamento forzato in casa e di interruzione dei rapporti sociali diretti ha avuto come reazione il moltiplicarsi di videochiamate e di meeting virtuali. Ciò che prima rappresentava un’eccezione è diventata la normalità del condividere lo stesso tempo ma non lo stesso spazio, dilatando una sorta di bramosia del “vedere” che altro non è che desiderio di presenza.
Il festival ha colto proprio questo aspetto e se n’è fatto in qualche modo interprete. Al posto di puntare sulla centralità degli spettacoli (che pure ci sono stati) la scelta prioritaria è stata quella di privilegiare quegli eventi che normalmente in un festival fungono da supporto o approfondimento. Incontri, dibattiti, tavoli di discussione, presentazioni, laboratori… da vedere e rivedere con calma, da meditare, per accompagnare la giornata e le sue ore dilatate. È stata questa la forza del festival, calata in quel clima di complicità confidenziale propria della voglia di raccontare raccontandosi.
La proposta più coinvolgente in questa direzione, la più poetica, pennellata di sfumature umoristiche, è stata il ciclo dedicato a Maria Signorelli segreta ovvero “Anche le case hanno un’anima”, un autentico viaggio minimalista nella casa-museo di Maria Signorelli, sicuramente tra le artiste più poliedriche della scena italiana del Novecento: dall’esperienza futurista presso la celebre Casa d’Arte Bragaglia, alle scenografie per il Teatro degli Indipendenti o il Maggio Fiorentino, alle migliaia di fantocci, pupazzi, burattini realizzati con creatività inesauribile. Sei stanze, sei cammei, uno per giorno di festival: dall’ingresso allo studio laboratorio, in compagnia di Giuseppina e Maria Letizia Volpicelli, qui in veste anche di registe e operatrici armate di un semplice telefonino. Non inganni la semplicità del mezzo di ripresa: una rara sapienza affabulatoria rende questi spiragli nell’intimo domestico un’autentica delizia vibrante di storia.

Secondo te la tradizione, così forte e presente nel teatro di figura italiano, ha limitato la possibilità di rinnovamento dei linguaggi?
La cosiddetta “tradizione”, ovvero il teatro classico di burattini, marionette e pupi è così forte perché è un punto di forza e come tale deve essere considerata. È un’eccellenza tutta italiana, che va assolutamente difesa e valorizzata con ogni mezzo. Ma tradizione non vuol dire museo, naturalmente. Non credo si debba pensare a un rinnovamento dei linguaggi: la grammatica dei burattini, delle marionette e dei pupi è chiara e distillata nei secoli. È piuttosto una questione di sensibilità e di apertura alle tematiche contemporanee.

In che modo la tradizione può innestarsi rispetto alla possibilità di essere proposta in modo nuovo e ricco di sperimentazione?
Per rinnovare un repertorio bisogna essere poeti e non tutti lo sono, né in fondo lo si pretende. A ben vedere le storie antiche, così come le favole e i miti, contengono già tutto. Ma quel “tutto” va scelto, ed è qui che la percezione del proprio tempo entra in gioco e diventa fondamentale. La “tradizione” è come un binocolo con cui interpretare la realtà. Se puntato dal verso giusto ingrandisce e permette di cogliere, attraverso questo ingigantimento, aspetti che ai più passerebbero inosservati. Ma se è puntato al contrario rimpicciolisce e allontana inesorabilmente diventando inutile, una memoria senza vita fine a sé stessa.

Pensi che l’uso del web possa rinnovare i linguaggi del teatro di figura?
È assolutamente presto per dirlo, perché è la percezione del web in ciascuno di noi che sta rapidamente mutando. Si sta passando da una fruizione privata e solitaria a un utilizzo condiviso, a luogo non-luogo d’incontro esperienziale. Più che sull’utilizzo del web per un rinnovamento dei linguaggi artistici, è su quest’aspetto che ci si dovrebbe interrogare.
Si fa un gran parlare di streaming, di quanto il teatro perda il suo stesso essere in uno stato di “assenza”, senza il legame diretto col pubblico. Ma sul pubblico, in verità, si ragiona pochissimo, o per meglio dire si ragiona pochissimo sul concetto di comunità e sul riconoscersi in una comunità. Nessuno si scandalizza nel guardare una partita di calcio in televisione e nessuno trova strano che addirittura si gridi se viene segnato un goal o che si sospiri se non viene segnato. Perché è normale? Perché quel grido è un grido condiviso, che si unisce ad altri gridi fino a formare un coro. Si grida perché si sa di non essere soli a farlo. Perché l’emozione che ti spinge al grido, al gesto estremo, è collettiva. Perché quella partita compatta una comunità, seppure nell’apparente solitudine dei singoli. Certo il calcio è un fenomeno di massa e il teatro a confronto è un fenomeno di nicchia. Ma siamo certi che un video-spettatore si consideri sempre solo? Quando e come può nascere la percezione di far parte una comunità radunata da un accadimento del “chissà dove” ma ora? Quanti interrogativi fondanti!
Mi rendo conto di aver risposto in maniera fuorviante alle tre domande e di non aver parlato specificatamente di teatro di figura ma solo di teatro… Ma proprio io non riesco a vederne la differenza!

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