Spellbound Contemporary Ballet. L’Arte della fuga… è invisibile agli occhi

L'arte della fuga (ph: Cristiano Castaldi)
L'arte della fuga (ph: Cristiano Castaldi)

La coreografia di Mauro Astolfi in scena per Danza in Rete Festival a Vicenza

“Una fuga è fatta bene (ad arte) quando nessuno se ne accorge” ha raccontato Mauro Astolfi, coreografo e direttore artistico della Spellbound Contemporary Ballet, durante l’incontro che si è svolto nella sala del Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, pochi minuti prima che sul palco principale andasse in scena la prima assoluta de “L’Arte della fuga”.

Lo spettacolo, che ha registrato il tutto esaurito, ha aperto la sesta edizione della rassegna Danza in Rete Festival | Vicenza – Schio “Moving Souls”, promossa dalla Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza e dalla Fondazione Teatro Civico di Schio, che ha co-prodotto lo spettacolo insieme alla Fondazione Teatro Comunale di Modena.

La fuga a cui si riferisce Astolfi, e che ritroviamo nel lavoro della compagnia, non è una fuga visibile agli occhi, ma è pacata, intima, mentale, momentanea. E’ il naufragare nel qui e ora verso “casa” anche solo per un attimo, per spostarsi dal mondo, e riassaporare la propria diversità senza farne una forma di pubblicità.

Il filosofo e biologo Henri Laborit scriveva nel suo “Elogio della fuga” che il veliero, quando non riesce più a lottare contro il vento e il mare per mantenere la sua rotta, ha solo due possibilità: andare alla deriva o fuggire davanti alla tempesta.
Può essere la fuga quindi una salvazione? Parola che “sta a salvezza come liberazione sta a libertà”, scriveva Michele Serra. Ci può salvare/liberare dall’amore, la morte, il dolore, dagli obblighi e dalle responsabilità, dalla felicità, la politica, dalla vita quotidiana?

L’elogio “all’invisibilità volontaria” con cui Astolfi e Spellbound Contemporary Ballet rispondono a questa aporia prende ispirazione dall’opera monumentale omonima, da sempre considerata il trionfo del contrappunto – l’arte di combinare due o più linee melodiche – che Johann Sebastian Bach scrisse alla fine della sua vita fuggendo dalle regole dell’epoca: “Die Kunst der Fuge” (L’Arte della fuga per l’appunto).
Nel regalare l’opera ai posteri, il compositore ha lasciato in dono anche un bel margine di libertà: “L’Arte della fuga” è rimasta infatti volontariamente incompiuta, e senza l’indicazione dell’organico strumentale per l’esecuzione.
Due caratteristiche, quest’ultime, che hanno sedotto Astolfi, nelle quali ha ritrovato il senso effimero della danza stessa, in cui “si ha sempre l’impressione di non arrivare mai alla compiutezza”.
D’altra parte, in qualche modo, non è anche la danza una fuga dal pensiero e dal sentire comune?

L’immagine con cui si apre lo spettacolo è straniante e dirompente: nel mezzo del palco si erige un enorme muro di cemento grigio che rompe in due la scena, creando al di là uno spazio a noi non visibile. Per un attimo non ci si accorge neppure che, appoggiato sul quel muro, c’è già un danzatore: i suoi abiti riprendono solo in parte il colore della parete alle sue spalle, aiutando la mimesi. L’abito di ognuno dei danzatori, come la pelle di un camaleonte, assomiglia all’ambiente in cui vive ed è necessario per mimetizzarsi, lottare, sedurre.
Nel frattempo, da una delle uscite di sicurezza ai piedi del palco, entra un secondo danzatore, porta con sé un tappeto d’erba verde, molto grande, arrotolato sulle spalle come in fase di trasloco: dopo brevi apparizioni, di quel tappeto non ne sapremo più nulla, se non sul finale.

Il muro che all’apparenza sembra invalicabile, un confine ben definito, sordo e immutabile, ha in realtà una porta di entrata e di uscita, e ha la possibilità di dividersi in due parti, che si possono schiacciare l’una contro l’altra formando un angolo cieco, o allontanarsi l’una dall’altra lasciando un’apertura di cui non possiamo intravedere la profondità; è spazio e tempo, è luce e buio, è un bastone che sorregge, un’àncora a cui aggrapparsi, e anche la tana del Bianconiglio in cui scivolare via.

Sul palco si alternano assoli, duetti e per lo più momenti corali; i nove danzatori sono persone con i propri fardelli e i propri slanci; il loro movimento è veloce, spezzato, articolare, ancorato per lo più a terra, ruvido e scivoloso allo stesso tempo. I corpi si avvinghiano e si respingono. Sembrano lottare tra loro, o contro qualcosa di intoccabile: si piegano, si sorreggono, gravano su sé stessi e su chi è accanto a loro, ma sono anche onde flessuose. La gamba allungata, il piede teso, il braccio disteso, la mano protesa verso lampi di luce e di buio. Il contatto fra loro è muscolare, vivo, a volte violento, altre doloroso, sommesso, al contempo vincente e perdente. Si intravedono solitudini, relazioni difficili, incomprensioni, il peso dell’esserci, e la leggerezza dell’andarsene magicamente senza toccare terra, risucchiati oltre il muro da un desiderio più grande.
C’è un dietro e c’è un davanti, noi possiamo sapere solo una parte del tutto. I danzatori sono nove, ma nel buio, oltre il muro, o mimetizzato tra il grigio della parete, potrebbe esserci qualcun altro, invisibile ai nostri occhi; a ricordarcelo sono dialoghi, sussurri di parole indecifrabili che si odono solo a momenti; forse idiomi a noi lontani o forme di pensiero che vivono negli anfratti, o che arrivano dallo sconfinato archivio della memoria (la lingua e il pensiero possono essere altre vie di fuga?).

Il muro così come i pochi oggetti di scena (una poltrona dal design moderno, una panca di legno, e quello che sembra un confessionale), come pure gli abiti di scena (giacca, pantaloni e camicia, qualche cravatta) sono drammaturgia: sono vuoti e pieni, da riempire e da sfilare, zavorre e zattere, specchi, sostegni e crepacci, sono prospettiva e linea perimetrale, sono la loro città.
E su tutto piove la musica, intensa, densa, e anche agile: quella di Bach rielaborata dal violoncellista e compositore Peter Gregson che dialoga con la musica originale di Davidson Jaconello.
La musica, che annaffia di acqua dolce anche il prato verde che avevamo perso di vista, ma che sul finale viene srotolato sul palco, come un “terzo paesaggio”, un invito, a cui tutti i danzatori fanno ritorno, come a volte si fa ritorno alle origini per ritrovare sé stessi.

L’Arte della fuga
Coreografia Mauro Astolfi
Interpreti Lorenzo Capozzi, Alessandro Piergentili, Miriam Raffone, Maria Cossu, Mario Laterza, Giuliana Mele, Mateo Mirdita, Anita Bonavida, Martina Staltari
Assistente alla coreografia Alessandra Chirulli
Musica J.S. Bach
Musica originale Davidson Jaconello
Disegno luci Marco Policastro
Costumi Anna Coluccia
Set concept Mauro Astolfi, Marco Policastro
Realizzazione scene Scenario
Produzione Spellbound Contemporary Ballet
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza e Fondazione Teatro Comunale di Modena

Visto a Vicenza, Teatro Comunale, il 25 febbraio 2023
Prima assoluta

 

 

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