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Artista sì, ma via di qui. Da Prosa et Labora riflessioni di sopravvivenza

Trench Into the Aquarius a Prosa et Labora
Trench Into the Aquarius a Prosa et Labora
Trench Into the Aquarius a Prosa et Labora (photo: Elisa Lobefaro)

«Il teatro non propone soluzioni, ma mette in piedi i problemi, li mostra, e propone una riflessione. La sua funzione è questa». Non solo in prosa, si potrebbe aggiungere dopo aver partecipato a Prosa et Labora Festival, evento alla sua seconda edizione che, oltre a mettere in scena il mondo precario, ne definisce i limiti, teorici e pratici, normativi e sociali, mettendo in campo le istanze comuni dei lavoratori dello spettacolo, e dell’arte in generale, attraverso un’analisi che, numero dopo numero e fatto dopo fatto, arriva quasi – e purtroppo – alla domanda cruciale: “Quanto conta davvero la Cultura in Italia?”.

Oggi, si intende, e si confronta la situazione con il dopoguerra nostrano che, per ricostruire il Paese, andò senza dubbio a ripoggiare anche i teatri sopra le macerie. Poi, qualcosa è cambiato.

«Va messa mano a una riforma sostanziale, per rompere una situazione che si reitera da mezzo secolo. È diventato così complesso gestire e rendicontare lo spettacolo che nessuno investe più. Di solo biglietto non si può vivere, e la gestione dello spettacolo, oltre che costosa, è complessa. E oggi, lo è anche più di ieri».
È stato Fiorenzo Grassi, direttore organizzativo del Teatro Elfo Puccini di Milano, ad aprire così “Artista sì, ma via di qui”, dibattito sulle condizioni e le tutele dei lavoratori dello spettacolo, quest’anno centrato sul confronto tra la situazione italiana e l’Europa.

Prima, però, una “non polemica” – come ha premesso lo stesso Grassi – considerazione sulla differenza di interpretazione del requisito di permanenza per le attività spettacolari tra Milano e città come Roma, o Napoli dove – a detta del direttore organizzativo dell’Elfo Puccini – il teatro stabile cittadino non paga le maestranze da cinque anni, pur continuando a beneficiare dei finanziamenti statali.

Partenza in medias res, insomma, di un dibattito più vicino a una riunione sindacale che a una conferenza. Non a caso, a coordinare i paladini dei diritti dei lavoratori dello spettacolo, Giancarlo Albori (Cgil) che, per quanto possibile, ha condotto in binari i tanti, e tutti importanti, interventi: «Fondamentale ribadire che i lavoratori dell’arte sono lavoratori» ha esordito l’onorevole Roberto Rampi (Commissione Cultura Camera dei Deputati) che, nell’agenda da portare in Parlamento, si è appuntato decreti economici, tabelle FUS, garanzie per giovani, concertazione, oltre ad un modo (ancora da trovare, nei prossimi due anni) per giocare bene l’occasione di Expo 2015.

Cambiare parametri e tabelle del finanziamento pubblico, rifare le debite proporzioni, al fine di evitare tagli lineari, è stata una richiesta ribadita anche da Graziano Gorla (Segretario Camera del lavoro di Milano), illuminante su politiche comunali definite disastrose. Guardando all’Europa, Gorla ha sottolineato il valore prioritario della cultura per l’unione dei popoli, ma anche l’imprescindibilità da una “fantasia di qualità”, riferendosi all’importanza della formazione per i giovani che, attraverso la propria creatività, possono salvarsi da una crisi, non solo economica, ma democratica. E il suo «facciamoli sognare!» è stato, se non altro, incoraggiante.

Propositivo anche il contributo di Tommaso Sacchi (operatore culturale) che, sottolineando l’esistenza di migliaia di imprese culturali che, in mancanza di finanziamenti pubblici, sono disposte ad autoprodursi pur di (soprav)vivere, ha citato due esempi di “fare”, modi di chiedere alla politica (se non i soldi) reputazione e spazi del patrimonio pubblico: prima, citando il modello attivo a Londra per gestire gli spazi pubblici e destinarli ad attività non istituzionali; e poi facendo riferimento a una novità italiana, ovvero l’IT festival, che si è autoprodotto in uno spazio pubblico (Fabbrica del Vapore di Milano).

E ancora, sul tema dell’industria culturale come filiera economica e anticiclica, si è fatto appello ad un legislatore che sia più presente e costruttivo nel sistema culturale attraverso la definizione di una forma giuridica e di un sistema di fiscalità per le imprese culturali. E’ stato poi ricordato l’Enpals, ovvero la forma di previdenza per i lavoratori dell’arte che, come tutti i lavoratori, hanno diritto a una legge quadro nazionale, e necessitano di ammortizzatori, per evitare che il grandioso capitale, umano e professionale, legato alla Cultura in Italia vada disperso.

Argomenti concreti e temi forti, stemprati dalla capacità critica, e dall’autoironia, di cui certi artisti sono portatori, sani e capaci. A partire dal duo di Associazione 15 febbraio, che ha proposto il suo “Servizio di pulizia o corpo sociale”, divertente e poetica parodia sul bisogno degli artisti di sentirsi impegnati e utili, se non con le competenze artistiche, almeno con scope e spruzzino per i vetri.

Una carrellata di caricature dell’attore come professione è stato il monologo, il primo di una tetralogia firmata Teatro Magro, magrissimo, “Senza niente”, appunto, se non un corpo performativo e performante, adattabile a qualsiasi palco, pubblico, contesto.
Comicità a denti stretti (stretti dalla sensazione che, purtroppo, è davvero così!) anche per “Brugole”, di Proxima Res, che da anni propone il giro di vite di una coppia che tira a campare, reinventandosi continuamente, smontandosi e adattandosi come fanno le mensole di una libreria Billy, componibile ed eterna finché dura.

Tutto vero, ancora, dopo quasi dieci anni dall’inchiesta di Aldo Nove sul precariato, fenomeno spauracchio mantenuto innominabile fino a che non si è potuto farne a meno. Adesso, che ce lo ritroviamo addosso, più presente che mai, la stessa Federica Fracassi ammette di interpretarlo in pieno, dentro (e fuori) i panni di “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”.

Strano che, per parlare di futuro, si vada sempre più giù, sempre più indietro, fino alle storie di “Fabbrica“, vere e raccolte, riscritte e interpretate da Ascanio Celestini, che ha chiuso in bellezza, con il pienone tipico del Carroponte, una giornata piena di storie, universali e contemporanee, ma anche di speranze, in attesa – ce lo auguriamo – di qualcosa di tangibile.

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