Ascanio Celestini e i(l) Pueblo. Intervista

Pueblo (photo ©Valerie Nagant )|
Pueblo (photo ©Valerie Nagant )|

Ci incontriamo in un bar, Ascanio Celestini ed io, e – sovrastati dal brusio degli avventori e divertiti dall’appostamento di una cameriera-fan – cominciamo, tra il serio e il faceto, la nostra chiacchierata. Parliamo di Perla Peragallo (sua maestra al Mulino di Fiora negli anni Novanta), di Leo de Berardinis, di antropologia e pian piano raggiungiamo l’argomento-cardine dell’intervista, “Pueblo”, secondo capitolo di quella saga cominciata con “Laika”, che ha finalmente raggiunto anche la piazza torinese.

Lo spettacolo, ospite della stagione dello Stabile di Torino, ha ottenuto un grande successo di pubblico. L’universo affrescato dall’attore-solista – accompagnato dalla dolce nenia del fisarmonicista Gianluca Casadei – è quello che brulica ai margini della metropoli, abitato da uomini e donne “senza qualità”. Emarginati di straordinaria bellezza, dalle vite tragicamente eccezionali e insolitamente entusiasmanti, sia pur nella loro banalità e privazione. «C’è la giovane donna chiusa in casa con la madre – racconta il foglio di sala –; la barbona che vive nel gabbiotto del custode del parcheggio; lo zingaro di otto anni che fuma le sigarette; il facchino africano malato di videopoker; la barista che guadagna con le slot machine. Sono gli scarti di un’umanità che procede veloce e indifferente. Sono gli indiani della riserva (“Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo?” è il titolo dello studio dal quale ha preso forma lo spettacolo) dei cui destini non importa a nessuno».

Questo sottomondo urbano, fatto di strade asfaltate e palazzoni, si materializza nella mente del pubblico, e di Pietro (interlocutore privilegiato), grazie all’indefesso monologo – un cadenzato riverrun – portato avanti da Celestini, che per l’occasione sfoggia jeans e coreana grigie, scarpa scura e giacca nera.
Sul palco vengono catapultate le solite casse di plastica colorata, usate ora come piedistalli, ora come sedute. Alle spalle dell’attore, un sintetico spaccato di interno domestico: due tende opalescenti lasciano intravedere un tavolino, coperto da una tovaglia a piccoli pois rossi, sormontato da un vecchio televisore anni Cinquanta e da un assortimento di pentole.
Celestini si fa narratore trasparente e accoglie su di sé (o meglio, dentro di sé) la voce e le storie dei personaggi di cui parla. Non c’è alcuna caratterizzazione dialettale o sociolinguistica: il passaggio dall’uno all’altro personaggio si percepisce soprattutto attraverso gli epiteti che, con ricorrenza, ne accompagnano i nomi. E così gli scarti, i nessi logici spesso bizzarri, le deformazioni della realtà che il soliloquio-dialogo lascia emergere sono dovuti al fatto che in quel momento a parlare, a pensare, ad esprimere e ad evocare immagini non è (solo) il narratore, ma lo stesso personaggio. Invisibile eppure così presente. E, si sa, nella mente umana il principio di non contraddizione non vale!

Una delle sequenze più belle è quella in cui viene raccontata l’esperienza in collegio, presso le suore, della futura barbona Domenica (che – a tratti – potrebbe ricordare le avventure della piccola Jane Eyre a Lowood). Qui il nietzscheano “Dio è morto” si trasforma in un bislacco, ma assai ingegnoso, “Dio è in cantina”.

“Pueblo” è la seconda tappa del percorso cominciato con “Laika” ormai quattro anni fa. Da cosa sei partito e quali legami si instaurano fra i due lavori?
Inizialmente avevo iniziato a raccogliere materiale per metter su uno spettacolo sul bombardamento di Guernica del 1937. Insomma, rispetto a quello che ho poi effettivamente costruito, questa prima idea non c’entrava un accidenti! Mi sembrava una storia molto bella, forte, che coinvolgeva gente proveniente da mezzo mondo. Una sorta di prova generale della seconda guerra mondiale. Pian piano però, lavorando su quel tema, mi accorsi di essere riuscito a tirar fuori, più che uno spettacolo, un discreto esame di storia (per il quale non avrei neppure ottenuto un voto troppo alto!). Mi resi conto cioè che non c’era, in quella storia, nulla di interessante: non fraintendermi, era una vicenda bellissima, importantissima, ma per nulla legata al tipo di lavoro che porto avanti io. Di norma, scrivo improvvisando. E l’improvvisazione si regge su due perni: da una parte, un lavoro di interviste che faccio ma che spesso restano lì, talvolta senza nemmeno essere riascoltate (e che a me servono per fare un’esperienza personale); dall’altra, l’improvvisazione vera e propria, che parte da zero. Parlo, per una o due ore, sperando che qualcosa venga fuori. E quanto ricordo della fase di inchiesta penetra nell’improvvisazione dello spettacolo.

La componente dell’improvvisazione è molto evidente nel tuo teatro. Io addirittura mi ero illuso che la storia di Domenica l’avessi riservata per la replica di oggi, ché è domenica appunto.
No, beh! [ride]. Per “Laika” avevo scritto degli appunti e li avevo mandati al musicista; ci siamo incontrati un paio di volte; il lunedì siamo andati a montare lo spettacolo; tra lunedì e martedì ho sbattuto la testa e ho saltato quindi la prima, e così abbiamo debuttato di mercoledì, senza provare. Un testo vero e proprio di “Laika” non esiste, tant’è vero che David Murgia, l’attore che fa “Laika” in francese, lo aspetta da due anni. Abbiamo lavorato con lui sulla trascrizione di quattro repliche. Ma un testo definitivo…

Un’editio ne varietur…
… ecco, quella, non esiste ancora! Prima o poi dovrò comporlo. Per “Pueblo” invece ho scritto qualcosa in più, visto che lo spettacolo è nato a cavallo tra Francia e Belgio, con titolo “Dépaysement” (“Spaesamento”). Quindi qualche “appunto” esiste, perché l’ho scritto per un’attrice francese. Ma non molto. Il lavoro che faccio io, come ti dicevo, è soprattutto di improvvisazione: quindi penso le storie, non le scrivo.

Si riconosce però una partitura profondamente articolata, dal ritmo battente. Si crea quasi un rapporto di complementarietà fra parola e musica in scena. E ancora, la musica non è mai mero accompagnamento o decorazione esteriore; sembra anzi che sia la parola a doversi armonizzare ed adattare alle battute musicali.
Esatto. Non è un caso infatti che io, sul palco, con un altro attore, non ci sia quasi mai salito. Ho fatto uno spettacolo con Roberto [Latini, ndr], ma stavamo lì insieme senza dialogare mai. Lui faceva il suo pezzo, io il mio. Due assoli. Sono riuscito ad “incontrarmi” con Giuliana Musso, ma solo perché anche lei porta avanti un lavoro molto simile al mio.

Cosa manca agli attori che invece i musicisti (e la musica) possiedono?
Con i musicisti si riesce ad improvvisare molto di più. Ho avuto modo di lavorare, negli anni, con Nicola Piovani, con Paolo Fresu, con Antonello Salis, con Giovanna Marini. Con Gianluca [Casadei, ndr] spesso andiamo in scena senza neppure una scaletta. Con Fresu addirittura successe che, dovendo lui partire per New York, non riuscimmo a provare, quindi ci accordammo praticamente prima del debutto: “Senti Ascà – mi disse – facciamo così: quando vedi che tolgo il microfono dalla tromba è perché faccio un pezzo da solo con la respirazione circolare”.

Avrete almeno qualche appunto, una bozza, un canovaccio?
Certe volte no; nel corso del tempo, però, riusciamo a raggiungere una struttura anche piuttosto rigida. Ma ci arriviamo con calma, la scopriamo in scena. Più arrivi con un’idea chiara, più riesci a metterti a disposizione. È un po’ come nel jazz: gli standard lì sono proprio delle musichette, so’ canzonette. “My Favorite Things”, ad esempio, non è che sia esattamente una cazzata, ma non è neppure il brano più profondo che sia mai stato scritto nella storia della musica mondiale.

Quindi, come in una jam session, tutto si fonda su un’improvvisazione su tema?
Sicuramente, ma devi avere ben chiaro il tuo modo di stare in scena. Per questo non ho un testo a memoria. A parte poi che mi scoccio a scrivere e non so’ capace di imparare le cose a memoria! Infatti mia madre mi diceva sempre: “Ma come fai a fa’ l’attore? Che da bambino quando tornavi a casa triste era sempre perché te toccava imparà una poesia a memoria!”. Infatti io fatico proprio. E trovo estremamente noioso provare e riprovare per un’ora e mezza di messinscena. Ritengo sia ben più stimolante lavorare attorno allo stare in scena, attorno alla scrittura. Non intendo “non scrivere”, ma al contrario “scrivere molto”. Mio padre era un artigiano e non è che abbia trascorso tutta la sua vita a restaurare un unico tavolo fino ad ottenere il tavolo perfetto. No, ha restaurato miriadi di oggetti. E questo è un po’ il mio approccio: le mie storie sono molte più di quelle che metto in scena.

 

Ti riconosci nell’etichetta, che ti hanno ormai affibbiato da tempo, di “teatro di narrazione”?
Mah, non lo so. Forse. Sì. Boh, io non penso sia, in generale, sbagliata. In tutte le interviste mi dicono sempre: “Tanto lo so che non sei d’accordo con quella definizione”. Non è esattamente così. Credo soltanto che se si pone il focus sulla “narrazione” si rischia di cadere in un discorso fuorviante, giacché tutto il teatro – in fondo – è di narrazione. Prendiamo Shakespeare o Molière o la tragedia greca: grandi intrecci, articolati, archetipici, strepitosi, ben più fantasiosi di quanto non siano le storie che racconto io. La differenza allora quale sarebbe? Che quando vediamo l’Amleto, di norma, ci sono sei o sette attori in scena mentre io sto da solo? Se è quello l’elemento discriminante, allora la vera differenza consiste nel fatto che il mio è un teatro che funziona soprattutto quando è si è soli. E quindi quello che chiamiamo “teatro di narrazione” è in realtà un teatro di autori-attori solisti, nei quali non si verifica alcuna scissione tra recitazione, regia, scrittura. Siamo stati noi, nel corso dei secoli, ad imporre una specializzazione (scenografo, datore luci, dramaturg), creando una sorta di catena di montaggio. Non che sia per forza sbagliato, eh! Però…

Però un attore che voglia definirsi pienamente tale non dovrebbe prescindere dall’essere un artista a tutto tondo, un poeta di scena totale (l’“attore lirico” di cui parlava De Berardinis, per intenderci). Non credi?
Infatti io la penso proprio così. D’altra parte non sono pregiudizialmente contro il teatro di regia, no! A mio parere, un bravo attore resta tale sia che vi sia un regista a indirizzarlo, sia che si muova in piena autonomia. Tendenzialmente, comunque, io cerco di spingere verso un teatro che valorizzi la responsabilità dell’essere umano, che induca l’attore ad assumersela in maniera il più possibile integrale. E dunque un attore, un uomo, che non soltanto stia sul palco, ma tenda a non delegare ad altri il momento della scrittura. Se poi funziona (anche) l’altro modello, tanto meglio! Anche se a me pare si tratti più che altro di un impedimento. Si mettono infatti in campo, in quel caso, tutta una serie di “sovrastrutture” – proprio in senso marxista – che rischiano di seppellire l’oggetto più interessante di tutto il discorso, l’essere umano.
Ciò che ci è utile per fare teatro, di fatto, già lo conosciamo, ne facciamo esperienza nella vita: camminiamo, parliamo, disponiamo di un bagaglio di parole che ci permettono di esprimere qualsiasi concetto, sappiamo usare il nostro corpo. Che poi non lo si sappia fare come un grande danzatore è ininfluente, secondario. Dobbiamo ripartire dal nostro stare, dal nostro agire nella vita, per riportare appunto un po’ di vita in teatro. Detto ciò, se ti serve Grotowski per raggiungere quell’obiettivo, bene, meglio! Se hai bisogno di Eduardo o di Peter Brook, usali! Tutto va bene. Io però sento attori che dicono: “Ho bisogno di nascondermi dietro il personaggio”, il che mi pare comico! Hai presente Gigi Proietti quando diceva: “Io entro nel personaggio. Entro, esco, entro, esco. Certe correnti d’aria!”.

Cosa dici in proposito ai tuoi allievi?
Agli allievi dei miei laboratori – non che ne faccia chissà quanti, peraltro – ricordo sempre un fatto: quando chiediamo un’informazione stradale, colui che ce la fornisce non è che ne faccia una questione di urbanistica; fa dei gesti, ripercorre un pensiero, osserva, immagina la strada che percorrerebbe lui e quindi parla, si esprime. Ma non è che descriva: rivede piuttosto il tragitto e di conseguenza produce l’immagine, che appare così vivida anche nella mente dell’interlocutore. Allo stesso modo, in teatro: dalla platea riesci a seguire il discorso perché anche tu produci l’immagine. Questo fenomeno accade per strada, al bar, in pizzeria. E funziona. E funzionerebbe nell’Amleto [in teatro, ndr], a patto che si produca anche lì il medesimo processo. Che poi un testo drammatico sia scritto meglio e con uno stile più alto rispetto a quanto mi racconta il mio vicino di casa non è importante. Anzi, talvolta è pure un impedimento. Io devo riuscire a rintracciare una certa qualità umana, rinvenibile soltanto – sembrerà scontato – negli esseri umani.

In “Pueblo” però non siamo proiettati all’interno di una dimensione di naturalistica trasposizione del linguaggio immediato. Si percepisce al contrario, da parte tua, un’azione di labor limae. Mi spiego meglio: i personaggi, gli “stati di coscienza” (per citare ancora una volta De Berardinis) da cui sei abitato e che dovrebbero essere linguisticamente connotati – vista la loro provienienza sociale specifica – si esprimono invece tutti in una lingua (pseudo)standard. A caratterizzarli sono piuttosto le scelte lessicali adottate di volta in volta, oppure quegli epiteti formulari a cui il loro nome si accompagna ogniqualvolta vengano chiamati in causa. Insomma, sono molto lontani, ad esempio, dalla Merì di Antonio Tarantino, dal suo mix di realismo ed espressionismo.
In quasi tutti i miei testi – sia quelli dati fin da subito alle stampe, sia quelli nati prima come spettacoli – ritroviamo sempre un narratore e un narratario intradiegetici. In “Fabbrica” il personaggio scrive alla madre; in “Storie di uno scemo di guerra” il discorso è più complicato ancora, perché la storia è legata alla mia famiglia, nello specifico a mio padre; in “Pro patria” c’è il personaggio che parla con Mazzini. Sia in “Laika” che in “Pueblo” sono io a parlare con Pietro. Anzi, in “Laika” sono io che racconto a Pietro quello che ho raccontato alle persone nel bar.

Perché non rivolgersi direttamente allo spettatore?
Parlare allo spettatore è fuorviante, per entrambe le parti. È chiaro che lo spettatore sia lì. Ma non deve pensare che io stia dialogando con lui, perché di fatto non è così. Anche perché se io parlassi veramente al pubblico, questo potrebbe quantomeno rispondermi. Ma perché stanno tutti zitti?

Ma le strizzate d’occhio non mancano (del tipo «quando siamo andati in Francia…»)!
Sì è un’apertura, ma so’ cazzate. Può anche succedere che uno starnutisca e io risponda: “Salute!”. Ma è solo un giochino. Lo spettatore non mi risponde mai veramente. Pensare che io stia narrando la storia direttamente a lui creerebbe una situazione innaturale. Mia nonna raccontava storie di streghe, ossia di donne che avevano conquistato un certo grado di emancipazione all’interno di un mondo che non lo contemplava, e che dunque la esercitavano in un’universo esclusivamente femminile. Erano delle superdonne, ma quando i maschi se ne accorgevano rischiavano per davvero. E mia nonna, queste storie, le raccontava in luoghi prettamente femminili – la cucina, per esempio – riservati alle sole donne. Gli unici maschi ammessi erano i bambini, che vivono una condizione di limbo sessuale. Questi racconti erano in un certo senso forme di emancipazione tramite la diegesi. Ogni tanto poteva accadere che qualche signora intervenisse, ma nella maggior parte dei casi stavano tutte zitte, pur conoscendo perfettamente i contenuti e la forma della vicenda. Quella era una dimensione di oralità vera, nel senso che tutte avrebbero potuto ri-narrare la medesima storia – farsi cioè aedi e rapsodi – dal momento che la ascoltavano almeno per la centesima volta. In teatro questa condizione non è data: se proprio si tratta di uno spettatore appassionato può darsi che abbia visto lo spettacolo due o tre volte. Quindi come potrebbe mai intervenire, se non a sproposito? Anche nel teatro che prevede programmaticamente l’intervento del pubblico, quest’ultimo conta poco più de ‘na poltrona. Quando ci sono spettacoli un po’ pericolosi al più si difende, scappa [ride] ma non è che interagisca.

In definitiva, allora, quale ruolo avrebbe lo spettatore?
Lo spettatore immagina, produce un’immagine. Si trova immerso in una situazione che gli consente di immaginare. A proposito di immagini, prendiamo le scenografie dei miei spettacoli: non raccontano mai qualcosa. In “Pueblo” abbiamo proprio esagerato con la mezza cucina. “Laika” aveva invece un sipario che si apriva all’inizio; qui troviamo degli elementi semitrasparenti che si riallacciano all’idea di stare dentro e fuori. Più che altro quello, ecco. Chi ha visto “Laika”, “Pueblo” e vedrà – quando mai sarà pronto – il terzo capitolo della trilogia, capirà che nel complesso la scenografia è più importante per l’idea, per la suggestione che offre a questi racconti che non perché racconti effettivamente qualcosa da parte sua. ‘Ste cassette stanno sempre lì, ma non significano un cavolo! In quanto cassette, intendo. Io penso sempre alla scenografia come a un luogo in cui lo spettatore possa guardare così come guarderebbe casa mia. E quindi, fisicamente, io mi pongo in relazione agli oggetti di scena al pari di come mi porrei se mi trovassi a casa mia.

Quindi riporti tutto al piano della vita?
Sì, ma non scelgo di farlo perché ritengo – come un assioma – che il teatro debba riprodurre la vita, ma semplicemente per il fatto che io, gli strumenti, li prelevo da lì. Le parole le ho imparate lì, le mie storie le raccolgo lì. Ma non solo io, tutti quanti: nessuno può aver imparato al di fuori della vita. E il testo, la scrittura, è ben più interessante e articolato in questo modo. Quando improvviso parto da zero, è vero, e può talvolta capitare che inizi a parlare da solo e che per un’ora dica soltanto cose senza senso. Ma anche in quel caso non si tratta, davvero, di cose completamente prive di senso: sono infatti le parole che ho imparato nella vita. Ora, ho quasi cinquant’anni: ne avrò pur imparata qualcuna, di parola. Per cui continuo a prendere e a pescare da lì.
E così mi approprio delle storie che mi vengono raccontate: avendole ascoltate, esse entrano a far parte del mio bagaglio, della mia esperienza. Quindi l’intervista non la svolgo da antropologo; ovviamente gli strumenti sono quelli, ma la sfrutto in maniera differente: non me ne servo per ricostruire un tessuto culturale, bensì proprio per fare un’esperienza personale. E uso la tecnica dell’intervista – e quindi il microfono, il video, il registratore – perché crea un rito. Perché la persona, se sa che quella è un’intervista, è consapevole del fatto che avverrà uno scambio, un incrocio di sguardi. Tante volte mi è capitato che, dopo due o tre ore di chiacchierata, il figlio o la moglie dell’intervistato dica: “Ma tu questo fatto non ce l’hai mai raccontato in maniera così compiuta”. E quello, giustamente, risponde: “Perché non c’è stata mai occasione!”. E allora l’intervista diventa il luogo deputato affinché quel qualcosa accada.

Quindi hanno molto di teatrale, le interviste?
Diciamo che è piuttosto vero il contrario, ossia che il teatro dovrebbe andare ad attingere da quel bacino. Ci sono due paginette che non mi stanco mai di citare, contenute nell’“Empirismo eretico” di Pasolini (anche stranamente brillanti, a differenza di tanti altri suoi scritti). Qui Pasolini dice: se io – sto parafrasando – ho bisogno per un film del ruolo del facchino, prendo un facchino vero; Moravia direbbe “giusto, ma il facchino non deve parlare!”; Bertolucci risponderebbe “giusto, ma il facchino deve parlare come nei film di Godard”, con le parole dei filosofi. E Pasolini pensa: perché il facchino, nei miei film, non può dire “li mortacci tua”? Da dove deriva questa paura del realismo? Non nasconderà forse un’altra paura, ossia quella per la realtà? Pasolini conclude affermando: per me il facchino deve parlare con le sue stesse parole, ma deve essere un facchino morto perché quando una persona muore la vita gli appare come un piano sequenza. Quando si muore cioè la vita della persona è compiuta e di conseguenza la si può montare.
Tornando alla metafora del facchino, le sue parole sono quelle di un morto, le parole che alla fine recuperiamo, quelle che danno un senso alla sua intera esistenza. Ad esempio – dice Pasolini – le parole che ricordano i parenti. Di mio padre infatti io non ricordo le frasi o le gesta più mirabili in generale, ma quelle più identificative per me, che magari sono quattro cazzate, ma che producono la sua immagine nella mia mente in maniera più vivida. E quindi il lavoro sulla concretezza e sulla vita è questa roba qui: io cerco, attraverso il mio lavoro di improvvisazione, di recuperare quegli elementi più significanti e visibili. È per questo che, pur avendo cominciato volendo parlare del bombardamento del ’37, so’ finito a parlà del Quadraro, del mio mondo.

Che poi il piano sequenza è il medesimo che si materializza alla fine di “Pueblo” e che, in rapida successione, segue i momenti più significativi della vita della moritura Domenica.
Esatto. Allora, per concludere, tutte le storie che pesco da fuori le devo riportare all’interno di quel meccanismo complesso che è lo stare in scena. Devono però, questi spunti, provenire il più possibile da ciò che si è imparato fuori.

Quindi la tua fonte di abbeveramento è sempre e comunque la realtà.
Perché, che altro ci sta?

PUEBLO
di e con Ascanio Celestini
musiche Gianluca Casadei
voce Ettore Celestini
suono Andrea Pesce
luci Danilo Facco
organizzazione Sara Severoni
Immagine Riccardo Mannelli
produzione: Fabbrica srl
coproduzione Romaeuropa Festival e Teatro Stabile dell’Umbria
Distribuito da Mismaonda srl

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 4′ 57”

Visto a Torino, Teatro Gobetti, il 24 febbraio 2019

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