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Atelier dei Duecento. Per una drammaturgia di massa

Atelier dei Duecento

Atelier dei DuecentoFin dal primo numero, i Quaderni del Teatro di Roma ci hanno abituato a veder campeggiare sulla copertina una citazione di Edward Bond: “Benedetta la città che fonda il suo teatro”.
Si riferisce, Bond, al teatro come spazio di riconoscimento ed elaborazione dello spirito comunitario: una qualità intrinseca dell’arte scenica, certo, ma non per questo più protetta dai flussi e dalle risacche della storia. Basti pensare a quanta differenza passa fra la vivacità democratica del teatro greco, centro della polis, e gli spazi protetti del teatro di corte, nel Quattro-Cinquecento, quando lo spettacolo diventa evento privato, non a caso messo in scena nel palazzo del principe, e in cui il pubblico in sostanza coincide con la committenza.

Se non ha senso ergersi come testarde dighe alla forza delle maree storiche, è altrettanto vero che la funzione politica e socialmente creativa del teatro è senz’altro un valore da difendere e da non dare per scontato. E se oggi non ci sono più prìncipi (o forse hanno solo imparato a nascondersi meglio), è innegabile che il trionfo del cinema ha praticamente riportato il teatro alla sua condizione rinascimentale, quando appunto il pubblico coincideva con i committenti e con quelli che oggi chiameremmo “operatori del settore”. In questa situazione, ben venga ogni tipo di iniziativa volta a coinvolgere gli spettatori e a valorizzare il ruolo di chi segue il teatro attivamente, senza per questo sentire il bisogno di aspirare all’Olimpo degli attori, dei critici e degli addetti ai lavori.

L’esperimento europeo dell’Atelier dei Duecento, promosso dal Teatro di Roma assieme ad altri cinque membri dell’Unione dei Teatri d’Europa, non pretendeva certo di raggiungere la profondità sociale o pedagogica che possono avere attività meno estemporanee come quella di Giorgio Testa con la Casa dello Spettatore, di Armando Punzo nel carcere di Volterra o la non-scuola delle Albe.

Oltre al Teatro di Roma partecipano al progetto Atelier dei 1000 la MC93 di Bobigny, lo Schauspielhaus di Graz, Il Teatro Sfumato di Sofia, il Teatro Nacional São João di Porto e il Maxim Gorki Theatre di Berlino. Durante l’ultimo dei sei workshop saranno proiettati i video di tutti gli atelier in un’installazione, per facilitare una comprensione sensoriale del motivo comune e delle differenze culturali. In questo modo si creerà un Atelier dei 1000 di diversi teatri e di diverse città d’Europa.

A Roma quattro registi affermati (Lavia, Sepe, Longhi e Pirrotta) si sono messi a disposizione per realizzare, insieme ai duecento iscritti, delle brevi drammaturgie di massa, ognuno secondo una sua idea e un suo copione.
Il 23 e il 24 giugno scorsi, sul palco di un Teatro India affollato dagli spettatori che hanno risposto all’appello, infiammati dall’emozione di lavorare a stretto contatto con registi di cui erano abituati a seguire gli spettacoli soltanto dalla distanza fisica e mentale delle poltroncine, l’Atelier ha così dimostrato quanto sia importante avvicinare pubblico e artisti, schiodare il processo creativo dal suo scranno e mostrarne i segreti a chi, durante le stagioni teatrali, ne potrà godere (e, non dimentichiamolo, finanziare) i risultati.

Pur con tutti i limiti di un’operazione caduca, lunga solo due intensissimi giorni, l’Atelier dei Duecento è comunque un segnale positivo per chi è convinto che, oltre alla carenza di fondi e alle oggettive difficoltà strutturali, il teatro abbia soprattutto bisogno, per tornare gesto e azione politica, di ricostruirsi un pubblico vero e proprio, disposto a mettersi in discussione e a farsi contagiare da regista e attori senza secondi fini, per il puro piacere di partecipare ed essere corpo integrato al dibattito, alla viva elaborazione culturale, e non con la surrettizia ambizione di poterci mettere la faccia, prima o poi.

Certo, suona paradossale fare un discorso del genere proprio per l’Atelier, che ha preso gli spettatori per mano e li ha piazzati sul palco, fomentando inevitabilmente proprio l’esibizionismo di certi aspiranti attori – pochi, per fortuna – che si sono iscritti per farsi notare dai registi, e che per raggiungere il loro obiettivo sono stati pronti ad improvvisare corse isteriche e priapismi di ogni tipo, là dove si chiedeva loro naturalità. Eppure è proprio attraverso l’apertura e la condivisione della sua indefessa artigianalità che il teatro può costruire un rapporto più trasparente e sincero con il suo pubblico in estinzione.

Si può allora seguire l’esempio di Pierpaolo Sepe, che durante il suo laboratorio ha avuto un approccio quasi teorico e metodologico, coinvolgendo i duecento in una vera e propria propedeutica alla tecnica teatrale: educare alla reattività, usare l’energia per variare le qualità di un testo, produrre gesti significativi rimanendo onesti, usare e abitare lo spazio in modo omogeneo, veicolare il lavoro fisico anche nella lettura, stare sempre in ascolto degli altri. Ecco, l’ascolto: saper ascoltare gli altri sul palco, seguire il ritmo e concertare in armonia le variazioni significa abituarsi ad uscire da sé stessi, a vivere l’apertura agli altri, ovvero a vivere la comunità. Con estrema facilità, nel teatro dal basso, la nozione tecnica può diventare insegnamento politico. E infatti Sepe parla della comunicatività del gesto come bellezza pura e amore: amore per la comunità con cui si decide di condividere sé stessi.

Gabriele Lavia ha optato invece per un laboratorio quasi monodirezionale: i duecento rimangono in platea ad assistere a una lezione di lettura dell’Infinito di Leopardi, che per lunghi tratti in realtà somiglia più a un’istrionica performance, con il direttore del Teatro di Roma che propina (va detto, con parecchio gradimento del pubblico) lacerti della sua biografia, raccontando di certe abortite esperienze all’oratorio insieme al fratello e riservando parecchia ironia ai gorgheggi degli attori alle prime armi.
La battaglia fra l’infinito leopardiano e l’infinito ego di Lavia finisce in pareggio, perché nonostante l’impostazione da lectio magistralis non valorizzi l’intervento dei duecento, relegati a coreuti, permette comunque che agli ascoltatori arrivino nozioni importanti: cosa significa lavorare sul sottotesto e lasciarsene influenzare nella dizione, non sbrodolare nell’intonazione, cercare sempre di “dire” e non di “recitare”.

Vincenzo Pirrotta ha deciso di raccontare il nostro tempo di crisi attraverso il primo stasimo dell’Edipo Re. Ha spinto i duecento a un lavoro fisico e di respiro, senza troppe istruzioni preliminari: partendo dal ritmo individuale della respirazione, ha tentato la costruzione di una coreografia circolare, un parossismo in cui la sofferenza del singolo si universalizzi per diventare grido di un’intera città e, fuor di metafora, di intere generazioni costrette al precariato e all’incertezza.
Pirrotta ha agito sui partecipanti con forza, pretendendo concentrazione e adesione al sentimento con severità quasi eccessiva, vista la sacrosanta inesperienza dei duecento.

Ma fra gli aspetti interessanti dell’Atelier c’è stato soprattutto questo, ossia la possibilità di conoscere da vicino la sfera caratteriale degli artisti e poter ad esempio apprezzare la diversità tra l’aplomb sicuro e narciso di Lavia e l’energia rabbiosa e allo stesso tempo imbarazzata di un Pirrotta: il contatto con l’umanità di chi ha il privilegio di stare sul palco e lo desacralizza, ricordando che chi fa lo spettacolo dovrebbe esercitare una convenzione, non un potere.

Il laboratorio di Claudio Longhi, infine, è forse stato quello che ha trovato il miglior equilibrio nella gestione di questo mastodonte drammaturgico dai quattrocento occhi: in una delle scene preparate, si è cantato in coro l’Inno alla Gioia, mentre emergevano a lampi le parole del copione, un pastiche di brani letterari e articoli di giornale. Anche qui riecco il tema ineludibile della crisi, degli sprechi, della sfiducia per la politica. Longhi ha chiuso la sua sessione di lavoro con le celebri parole di Calvino: bisogna cercare tutto ciò che nell’inferno non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio; il teatro è senz’altro uno dei modi migliori per provarci.

Cosa può rimanere, dunque, a distanza di qualche settimana, dell’Atelier dei Duecento, oltre alla registrazione del lavoro fatto e alla sua condivisione nel circuito dei Teatri d’Europa?
Dare un seguito più regolare all’iniziativa significherebbe proporre agli spettatori un ambiente teatrale sempre più aperto, dimostrando che è possibile estendere l’esperienza culturale anche al di là della visione dello spettacolo concluso; significherebbe uscire dall’idea della stagione da teatro stabile e arricchirla di quelle iniziative collaterali di inclusione e partecipazione che finora hanno trovato spazio soltanto nelle ridotte dimensioni temporali dei festival estivi. Rispetto ai festival, si aprirebbe la possibilità di lavorare sul territorio, concretamente, per la crescita di cittadini non solo fruitori di cultura e di teatro, ma soprattutto abituati ad essere parte attiva del dibattito, senza per questo uscire dal ruolo di pubblico.
È soltanto dal basso, nella riscoperta delle proprie origini, che il teatro può vincere la battaglia per la propria sopravvivenza.

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