Il palco romano di Attraversamenti Multipli posa con una sua gentilezza sul largo piazzale intitolato a Spartaco, lo schiavo ribelle per antonomasia. In realtà, più che di palco, si tratta di quattro strisce di tappeto da danza, uno stativo con PAR e qualche barra led, due casse, una trentina di sedie da conferenza correttamente distanziate e igienizzate, una consolle, un gazebo dal nome di “info point”.
Occorre frequentare il festival, da vent’anni esatti pensato, organizzato e spesso agito da Margine Operativo, per capire se a quella gentilezza della materia corrisponda un’incisività nella pratica della vita del quartiere del Quadraro, proletario e antifascista per antica tradizione, oggi appeso a un tempo come il nostro che con la politica ha un rapporto spesso puerile, segnato fin nelle sue più microscopiche forme di vita dalle logiche ora del capitale ora dello spettacolo.
Chissà se la scia di Attraversamenti continua a vagare per le strade, una volta smontato, o se le comunità del quartiere lo preparano attivamente, lo aspettano. Se questo regalo, l’ospitalità di artisti di vaglia (da Salvo Lombardo a Balletto Civile, dallo stesso Margine Operativo a Carlo Massari, ad Andrea Cosentino e tanti altri, per limitarci a quest’anno) riesce a lasciare un’impronta durevole, ad accompagnare il corso della vita in questo gomitolo di strade spontanee, tra casermoni e casupole, assediato dalle lamiere persino sui marciapiedi.
Di solito il consiglio di frequentare o non frequentare un festival è la chiusa di un resoconto come il nostro: in questo caso è un invito preliminare, anche in un settembre come questo che sta per chiudersi, di recuperi e affollamenti di date.
Nella serata di apertura, mentre sotto i ponti dei grandi condomini sciamano ragazzini dai complessi tagli di capelli, impudichi nell’occupare le sedie della platea con le loro sgangherate combriccole in biciclette e monopattini, si aggirano al contrario solitari e silenziosi, con il sorriso sulle labbra, gli “spettatori” di Collettivo Amigdala.
Quella che ci propone il gruppo modenese con “Lettere anonime per un camminatore” è una breve camminata di circa 20 minuti per le strade del quartiere, guidati da cartelli e segni posti sull’asfalto e accompagnati da una voce-guida registrata che non dà indicazioni ma suggerisce riflessioni attraverso i testi di Gabriele Dalla Barba, e raccoglie testimonianze attraverso stralci di interviste agli abitanti della zona.
Il percorso, già presentato ad Attraversamenti nel 2017, è da compiersi con la necessaria calma e si impernia su un paio di tappe forti: la sosta nel Centro Sociale Spartaco, l’attraversamento di un comprensorio di case popolari e l’arrivo sulla rampa di un garage (che scopriremo essere il luogo dell’istallazione di “La stanza della rivoluzione” di Lacasadargilla).
Qui vi è un tavolino con mucchi di buste contenenti la trascrizione del testo ascoltato in cuffia: il camminatore può applicare un francobollo, scrivere un indirizzo e spedire il suo messaggio a chi vuole – lì accanto c’è una buca per le lettere.
La performance è gradevole ed esente da incidenti di percorso, ma a suo modo timida rispetto ai risultati raggiunti, per citare un nome, dal gruppo Dom- di Valerio Sirna e Leonardo Delogu.
Un punto forte dell’esperimento di Amigdala può essere la posizione di solitudine del “viandante” – lo può essere se sfruttata nel segno dell’intimità con la voce che parla.
Ciò che potrebbe non convincere pienamente è la brevità dell’esperienza (in 20 minuti è molto difficile entrare in una logica di sguardo “altro” sul circostante) e la sovrapposizione di un testo alieno, di contenuti ulteriori rispetto allo sguardo sulle pietre, sui palazzi, sugli alberi e sulle immondizie. Un tentativo un po’ troppo assolutizzante, per quanto garbato, di fare poesia portandola da fuori.
Segue, proprio nello spazio della galleria d’arte Garage Zero a cui sembrava guidarci la rampa, l’istallazione “La stanza della rivoluzione” di Lacasadargilla.
Il lavoro è semplicissimo: la narrazione da parte della voce registrata di Elio de Capitani di stralci dallo storico reportage di John Reed sulla rivoluzione bolscevica; tre tavolini con volantini in uno stile che ricorda gli “Okna Rosta” con poesie di autori rivoluzionari – ma alcune sono posteriori ai fatti, come il famoso ultimo biglietto di Majakovskij – e volumi sull’argomento in bella mostra, da sfogliare.
Momenti forti della serata sono invece i brevi pungenti lavori, schiettamente teatrali, di Teatro Civile/Michela Lucenti e di Giovanna Velardi. Quello della coreografa e danzatrice di origine siciliana è un ‘solo’ piccolo, indicibilmente nervoso e sparpagliato, che gravita attorno all’elemento scenico del costume indossato dall’artista, intessuto di mini led pronti ad accendersi.
“Look me inside”, questo il titolo, è un lavoro veramente incontenibile e a suo modo ingiustificabile, strapazzato fra momenti di ossessiva apertura al pubblico (con l’ormai consueto cliché del richiamo sul palco per ballare tutti insieme), e bizze infantili sputate in aria, capricciose, feroci, e poi richiami in francese da parte dell’artista, frammenti di confessione che vuol essere tenera ma intimidisce l’ascoltatore, un possesso del palco ferino che disorienta, sconvolge.
L’energia di Velardi fa letteralmente paura (a chi scrive, se non altro…) e in questo irretimento del pubblico è evidentemente il fascino di una performance che, certo in maniera programmatica, riesce assai meno composta, assai meno “scritta” del suo recente “I broke the ice and saw the eclipse”, in scena e sotto la tutela di Roberta Nicolai a Teatri di Vetro 2019, pur mantenendone alcuni strumenti espressivi di fondo.
Il lavoro di Balletto Civile/Michela Lucenti ha una fisionomia più piana, anche se si tratta, a leggere le note di sala di una “trasformazione ad hoc” di un lavoro andato in scena al Festival Oriente/Occidente qualche settimana fa.
Anche in questa forma site-specific, comunque, “Paesaggio d’interni/azione danzata” sfoggia una solidità invidiabile, che si giova soprattutto di una struttura a quadri evidente, circolare e leggibilissima.
Si tratta di tre coppie di danzatori, corrispondenti a tre coppie di personaggi, che danzano due a due i loro rispettivi rapporti.
Un cocente nucleo passionale, sensuale, innerva il primo duo, ma il rischio del patetismo e della melensaggine è evitato grazie all’inimitabile e incomparabile qualità del gesto di Michela Lucenti, cristallina e tagliente, così come quella del suo partner Alessandro Pallecchi Arena, che riescono senza compromessi a restituire un’analisi priva di scorciatoie, segnata da una fisicità che è essa stessa racconto, testo da leggere e interpretare.
Il linguaggio dell’intero lavoro è chiaro, comunicativo, nessuna particolare smania sperimentale, e così l’effetto ironico del secondo duo, dalla qualità più morbida, quasi di evitamento, arriva diretto a chi guarda, lasciando trapelare il senso di un affetto tenero e consapevole, mentre il terzo lascia emergere una carica inquietante di violenza e manipolazione attraverso una fisicità intrinsecamente più aggressiva, feroce, che si giova della mancanza dell’elemento ritmico (nessuna musica l’accompagna, solo il rumore del vento), restituendo un movimento a segmenti più lunghi, più carichi.
Conclude il lavoro una breve riunione delle tre coppie, e la lettura di un testo di Heiner Mueller, a cui lo spettacolo si ispira.
Attraversamenti Multipli arriverà a Toffia (RI) il 3 e 4 ottobre con Teatro delle Apparizioni e Andréanne Thiboutot per la conclusione del festival.