Aus Einem Totenhaus. Dostoevskij, Chéreau e un gruppo d’attori in trasferta a Berlino

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Patrice Chéreau ha presentato a Berlino “Aus Einem Totenhaus”, opera tratta da “Memorie di una casa di morti” di Fedor Dostoevskij. Abbiamo inoltre fatto qualche domanda a Igor Loddo, uno degli attori impegnati nell’opera

Aus Einem Totenhaus
Aus Einem Totenhaus (photo: staatsoper-berlin.de)

Non sempre capita che un gruppo di attori italiani vengano scelti direttamente da un regista internazionale per essere catapultati in un’altra città europea, a vivere l’esperienza diretta di una produzione importante in un ambiente nuovo e stimolante come quello di un grande teatro d’opera.

Siamo andati a Berlino a vedere “Aus Einem Totenhaus”, opera tratta da “Memorie di una casa di morti” di Fedor Dostoevskij, musica di Leos Janacek, per la regia di Patrice Chéreau.
L’opera era stata rappresentata in Italia nel febbraio 2010 e i 16 attori selezionati da Chéreau al Teatro alla Scala di Milano sono stati chiamati per la prosecuzione del progetto, che è stato presentato come apertura della nuova stagione operistica dello Staatsoper Unter den Linden di Berlino, al momento nella sede provvisoria in Schiller Theatre.
Certo non è usuale che degli attori (che in un’opera non cantano, né parlano) vengano chiamati uno per uno per riproporre un’opera all’estero quando, solitamente, gli artisti sono selezionati direttamente nella città in cui viene rappresentato lo spettacolo.
Per questo ci siamo incuriositi, e siamo andati a trovarli nelle (per altro splendide) case che il teatro ha messo loro a disposizione, chiedendo di raccontarci la loro esperienza. Ovviamente dopo aver visto lo spettacolo.

L’esperienza è interessante tanto più che gli stessi attori in Italia faticano a lavorare, chi con la  rispettiva compagnia teatrale, chi come singolo… È interessante ribadire il concetto che “nemo è profeta in patria” e che comunque c’è una speranza per tutti, se viene data la possibilità a un intero gruppo di persone di fare un’esperienza all’estero di due mesi di questo calibro, per rappresentare un’opera che ha completamente sbancato il botteghino del Teatro alla Scala e, adesso, dello Staatsoper di Berlino.

“Da una casa di morti” è un’opera grandiosa, monumentale, basata sulle memorie di Dostoevskij delle prigioni zariste. Il libretto inizialmente presentava un’opera scritta in numerose lingue (slavo, ceco, russo..), in un secondo momento è stata invece ridotta nel solo ceco.
Il dramma non ha né una vera storia né un filo conduttore. Si snoda in una serie di scene, tutte tratte dal carcere e dalle sue memorie, che si susseguono l’una dopo l’altra, senza sospensione di ritmo.
Sebbene non ci sia una struttura fissa, Chéreau riesce a creare un dramma incalzante, che ben racconta la claustrofobia del carcere, le illusioni e disillusioni di una vita in prigionia, la paura e l’ansia dei detenuti costretti a convivere gli uni con gli altri nell’inferno della marginalità.

Aus Einem Totenhaus
Aus Einem Totenhaus

Il carcere, in questa versione di Chéreau, potrebbe essere dei giorni nostri: poco o niente ha a che vedere con le prigioni di Dostoevskij, e qui sta la forza della scenografia, delle luci e dei movimenti di scena, così attuali e per questo castranti e impressionanti. Anche i costumi di Caroline de Vivaise non seguono un periodo storico definito, la scelta è proprio quella di non definire un momento ma di raccontare la vita del carcere, come un universale mondo che negli anni resta uguale a se stesso, con le stesse angosce, le stesse paure e le stesse castrazioni.

La sintonia tra attori e cantanti salta subito alla luce. Gli attori non sono semplici mimi, relegati a fare da cornice in uno spazio immenso, come spesso accade nelle opere, ma sono parte integrante del dramma, sempre presenti in primo piano in ogni azione scenica, a rendere lo spettacolo fruibile anche per chi non è abituato a questo tipo di linguaggio, e portando lo spettatore dentro un film, dove la carnalità e la presenza umana sono protagoniste.

Le luci fredde, i grandi blocchi grigi che si spostano all’occorrenza, la coralità del gruppo e della musica, che sembrano danzare insieme in ogni momento, rendono lo spettacolo davvero interessante. Molto efficace la scena in cui in un istante breve, velocissimo, improvviso, un mucchio di rifiuti cade dall’alto e un gruppo di detenuti avanza nella nebbia per recuperare qualcosa tra le carcasse di carta, libri e giornali che sovrastano lo spazio.
Disarmante anche la scena finale, dove ci si domanda quale sia la vera libertà, dove gli attori e i cantanti cercano di far librare nell’aria un’aquila, simbolo di vita e di speranza, e si (e ci) emozionano quando la vedono volare via.

La musica di Janacek è incalzante e potente, e Sir Simon Rattle (come prima di lui Esa-Pekka Salonen) la esegue straordinariamente bene, con una tensione continua tra razionalità ed emozione. Il suono è sempre forte, genera brividi e momenti di sorpresa, accompagna le lugubri scene carcerarie con una pulizia e una ruvidezza che non sono esenti da lunghi respiri nostalgici.

Chéreau ha lavorato sui dettagli, ogni cosa è a suo posto, perfetta, senza sbavature. Ogni scena presenta una controscena precisa, frutto di un lavoro minuzioso, non ci sono momenti di stanchezza, e assistere allo spettacolo più volte consente di vedere diversi spettacoli, impercettibilmente legati tra di loro.
Il lavoro degli attori, di approccio molto fisico, nasce dall’improvvisazione ed è palese vedere come Chéreau abbia concesso loro di sperimentare un nuovo modo di avvicinarsi al teatro d’opera, diverso e profondamente distante da quello a cui siamo abituati. Non a caso gli attori sono stati richiamati per riprendere in mano lo spettacolo, e hanno dovuto lavorare un mese e mezzo a Berlino per rimettere in piedi tutta la struttura.
Tutte le scene sono nate dallo studio e dalla ricerca, partendo dai temi della “vittima e del carnefice” e dei “detenuti e degli aguzzini”, gli attori hanno lavorato in improvvisazione creando delle partiture fisiche, ovviamente legate alla musica. Chéreau, con il suo assistente sempre presente Thierry Thieu Niang, ha stabilito le parti da assegnare decidendo in base allo sviluppo delle varie situazioni chi era più adatto per rappresentare l’uno o l’altro ruolo. Il lavoro è stato interessante soprattutto per questo e perché Chéreau ha cercato di studiare ogni singolo personaggio, o archetipo di personaggio, senza dare alcun giudizio, sia che si trattasse di una vittima sia che di un carnefice. Per il regista infatti è importantissimo non giudicare mai la sostanza e le azioni di un personaggio, per poter seguire il suo percorso fino alla fine, senza stabilire in anticipo quale debba essere il suo sviluppo.

Tra gli attori e il regista si è creato un vero legame di stima e affetto, nato dall’estrema professionalità di quest’ultimo, che non ha mai lesinato nell’offrire l’appoggio per qualsiasi esigenza, artistica, umana e anche tecnico-amministrativa.
Ci raccontano che Chéreau, con la sua conoscenza di otto lingue diverse, che si alternano tra loro quasi come una lingua a sé stante, ha modificato le scene dello spettacolo e una serie di elementi fino al giorno prima di andare in scena, in una ricerca costante e continua di perfezione. E il risultato è davvero molto convincente.

Aus Einem Totenhaus
Aus Einem Totenhaus

Abbiamo fatto qualche domanda a Igor Loddo, uno degli attori impegnati nell’opera.

Com’è stato lavorare a Berlino?
Lavorare con Chéreau è sempre un’importante esperienza, sia a livello professionale sia a livello umano; essere poi a Berlino mi ha molto arricchito. E’ una città viva, dinanica e aperta a tutte le forme d’arte.

Raccontaci allora qualcosa della vita teatrale berlinese.
Berlino è la città della danza, ma anche del teatro; il pubblico va a teatro con la stessa frequenza con la quale va al cinema, per questo i teatri sono sempre pieni, sia quelli stabili, sia quelli off.

E Chéreau?
Chéreau ha sempre tutto sotto controllo, anche con 80 persone in scena sa esattamente chi fa cosa. ll suo lavoro è come un quadro vivente, lo apprezzi nella sua complessità e puoi soffermarti su tutti i dettagli, per questo moltissimi spettatori, se potevano, tornavano a rivedere il lavoro, perché ogni volta era come assistere ad uno spettacolo diverso.

Avevate problemi a capirvi con lui, per via della lingua?
Chereau parlava in italiano con noi attori, in tedesco con i coristi, in inglese con i cantanti e in francese con il suo coreografo. Spesso mischiava le parlate tutte insieme, destreggiandosi come un acrobata. Era impossibile non capirlo, ma anche impressionante vedere quanta tranquillità aveva nell’usare fluentemente tante lingue diverse tra loro!

Come siete stati accolti dal teatro e da operatori, tecnici e artistici che ruotano intorno allo spettacolo?
Fin da subito ci siamo sentiti parte di qualcosa di grande. Tutti ci trattavano con rispetto e attenzione, e non ci siamo mai sentiti fuori luogo. Alla fine dell’opera, l’ultima replica, siamo stati convocati e abbiamo trovato nei nostri camerini una nuova copia del contratto che avevamo firmato a luglio. C’era un bonus per il nostro lavoro, e il teatro ci ringraziava per quello che avevamo fatto e per la professionalità che avevamo dimostrato. A detta loro l’opera è stata un successo come a Berlino non se ne vedevano da anni, e il teatro ha ritenuto di doverci premiare in qualche modo. Siamo rimasti basiti. Siamo abituati a dover supplicare i teatri per farci pagare quello che ci spetta; trovarsi con un contratto nuovo, non richiesto, e con un bonus per ringraziarci è stato davvero il modo migliore di chiudere in bellezza questa splendida esperienza!

AUS EINEM TOTENHAUS
di LEOS JANACEK
tratto da MEMORIE DI UNA CASA DI MORTI di FEDOR DOSTOEVSKIJ
regia: Patrice Chereau
director: Simon Rattle
artistic assistance: Thierry Thieû Niang
set design: Richard Peduzzi
costume design: Caroline de Vivaise
lighting: Bertrand Couderc
chorus master: Eberhard Friedrich

Alexander Petrowitsch – Gorjantschikow
Willard White – Schischkow
Pavlo Hunka – Roman Trekel  14|17 OCT
Aleja, ein junger Tatar – Eric Stoklossa
Filka Morozow im Gefängnis als Luka Kusmitsch – Štefan Margita
Der große Sträfling – Peter Straka
Der kleine Sträfling – Vladimír Chmelo
Der Platzkommandant – Jiří Sulženko
Der ganz alte Sträfling – Heinz Zednik
Der Koch – Alfredo Daza
Der Pope – Arttu Kataja
Skuratow – John Mark Ainsley
Tschekunow – Ján Galla
Der betrunkene Sträfling – Florian Hoffmann
Der junge Sträfling -Olivier Dumait
Dirne – Susannah Haberfeld
Ein Sträfling in der Rolle des Don Juan und des Brahminen – Ales Jenis
Kedril – Marian Pavlovič
Schapkin – Peter Hoare
Tscherewin – Stephan Rügamer

Attori: Roberto Adriani, Stefano Annoni, Paolo Bufalino, Jeff Burchfield, Alessio Calciolari, Fabrizio Cantaro, Antonio Caporilli, Daniele Gaggianesi, Pietro Gandini, Enzo Giraldo, Igor Loddo, Michael Melkovic, Pierpaolo Nizzola, Lorenzo Piccolo, Franco Reffo, Damiyr Shuford.

Visto a Belino, Schiller Theatre, il 3 ottobre 2011

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