Edimburgo, 22 agosto 2010. Uscendo dal Traverse Theatre, sai che racconterai di questo spettacolo come si scrive una pagina di diario, perché senti che è entrato a far parte del tuo bagaglio di informazioni sul mondo. È un fenomeno raro, che non è proprio di tutte le esperienze cui sei passato attraverso da quando sei diventato un cronista teatrale. Anche tra quelle valide, belle, non tutte hanno questa forza, questa desolante semplicità, questa crudezza.
Di Tim Crouch avevi già sentito molto parlare, e visto diverse cose qui in Italia: oltre al rispettabilissimo lavoro dell’Accademia degli Artefatti, una esemplare versione di “England” diretta da Carlo Cerciello per il primo Napoli Teatro Festival nel 2008.
Sapevi già della violenza dei temi, del tentativo di fare un teatro dell’essenzialità in cui ad essere centrale è il rapporto tra pubblico e attore, tra attore e personaggio, tra personaggio e storia, tra storia e cronaca. Una cronaca che necessariamente si fa beffe della propria stessa verosimiglianza, proprio perché gioca a destrutturare tutti quei rapporti, a fare corto circuito tra essere e apparire.
Per la prima volta, dopo averlo mancato al debutto autunnale al Royal Court di Londra, riesci ad essere spettatore non di un adattamento, non di una versione italiana, ma di una replica del prodotto originale. “The Author” spiega la propria natura già dal titolo. Al centro dell’attenzione sarà il meccanismo drammaturgico, l’ingranaggio che muove l’effetto di una creazione teatrale. All’ingresso in sala scopri che il palco stavolta non c’è. Il pubblico è alloggiato su due spalti speculari. Ti aggiri per la sala e vedi di evitare le sedie sui cui campeggia la targhetta “a seat for…” (un posto per…).
Leggendo il programma di sala e una recensione hai scoperto che i tuoi sospetti sono fondati: pubblico e attori condivideranno lo spazio, e pensi che quelle targhette indichino i posti riservati agli attori. Ti sbagli, ma fa poca differenza. Il vero spettacolo è già cominciato negli occhi degli spettatori, che vedi schierati davanti a te. Ci si guarda con diffidenza e imbarazzo, con circospezione. Un lungo silenzio, decorato dal chiacchiericcio sommesso, viene spezzato da uno squillate: “Oh, it’s beautiful, isn’t it?”. Tra noi c’è davvero un attore. Alla sua voce, nel corso dello spettacolo, si aggiungerà quella di un altro uomo, di una ragazza e dello stesso Tim Crouch, brillante nel sorriso perenne, l’abito nero e la lucida testa rasata.
Il plot è piuttosto semplice: il regista e gli attori principali raccontano la lavorazione per la messinscena di un drammatico spettacolo che racconta di un padre che abusa della figlia dodicenne. Scopriremo come è nata l’idea, come si è svolto il casting, come le ricerche abbiano portato la compagnia a entrare in contatto diretto con le reali vittime di abusi sessuali infantili. Osserveremo il “padre” raccontare la propria nevrosi, che lo ha portato a identificarsi troppo con il personaggio tramutandosi in un violento aggressore. Tutto costantemente in bilico tra realtà e finzione, con “la figlia” che passa repentinamente dalla rappresentazione della ragazza traumatizzata ai piccoli aneddoti delle sue partecipazioni come attrice a grandi kolossal statunitensi. Il tutto intercalato da interventi a gamba tesa del primo personaggio, quello che rappresenta il pubblico, che pilotano le nostre reazioni mostrandocene la contraddittorietà. Ogni tanto qualche breve intervallo musicale mette il pubblico nella condizione di parlare, fare conoscenza, chiacchierare del più e del meno.
Sei intrappolato in una sorta di versione post-moderna dei “Sei personaggi” pirandelliani. Il ruolo viaggia su un binario a sé, il personaggio s’incrocia con l’attore, che condivide con lo spettatore parte del proprio dolore reale. È “avanspettacolo della crudeltà”, direbbe qualcuno. Ed è insopportabile. Una tortura psicologica incredibilmente spietata, oltre che una perfetta macchina drammaturgica. Molti spettatori non reggono il confronto e piano piano la sala si svuota, soprattutto nell’ultima parte, quando Crouch si mette a raccontare, con quella voce ipnotica e orientale, come una notte, al termine della festa di chiusura di quell’arduo spettacolo, quando tutte le sofferenze provate nel costruire la propria analisi psicologica e artistica erano giunte al termine, si trovò a guardare se stesso incapace di resistere alla seduzione voyeuristica.
Lo ascolti mentre descrive il sito internet su cui va a navigare deliberatamente, nel silenzio della casa addormentata, procedendo come un sonnambulo telematico alla ricerca di quelle immagini insopportabili. Con voce meccanica eppure partecipata, Crouch descrive nei dettagli le foto pedopornografiche, le presenta come una realtà insopportabile, come un immaginario parassita che ha incautamente risvegliato e che non lo abbandonerà mai.
Mentre un altro gruppetto di spettatori lascia la sala con una mano davanti alla bocca e già le lacrime agli occhi, pensi che questo è più che teatro, è un atto di crescita. Qualcuno, usando una violenza terribile ma scientifica, ha messo a digiuno la tua coscienza di essere umano fino a farla boccheggiare per la fame. Una tortura che ammiri e che ti commuove. Della quale non ti libererai facilmente.
THE AUTHOR
di Tim Crouch
produzione: news from nowhere e The Royal Court Theatre, London
con: Tim Crouch, Chris Goode, Vic Llewellyn, Esther Smith
regia: Karl James & a smith
luci: Matt Drury
musica e suoni: Ben Ringham & Max Ringham
Visto a Edimburgo, Traverse Theatre, il 22 agosto 2010