Quando entriamo nella sala del Teatro India che ospita “Avalanche”, Marco D’Agostin e Teresa Silva sono già in azione all’interno di una scena vuota, rischiarata gradualmente da una luce che ricorda l’alba accolta in cima ad una montagna. Non si sa se la valanga ci sia già stata o se aspetti che la sala si riempia per travolgerci tutti. Nel frattempo, mentre i performer progressivamente iniziano a cercare di presentarsi, il mio è un tentativo di parziale immedesimazione, vedendo in chi mi sta davanti gli incerti rappresentanti di una generazione. Il plurale maiestatis ci aiuta sempre a sentirci meno soli.
Parliamo cinque lingue ma non sappiamo cosa dire. O non abbiamo niente da dire. (Diverso da dire niente e rigorosamente, come John Cage, o come forse Young Signorino).
E lo ribadiamo. E ve lo facciamo vedere, più o meno, ben vestiti e microfonati, educatamente, senza eccessi, congelati, dimessi, con scatti di poco conto e una tecnica pulita. Non abbiamo niente da dire ma registriamo quel che ci passa davanti, per le orecchie, per sentito dire, nel cammino. E lo ripetiamo, lo dimentichiamo. Abbiamo gli strumenti ma non sappiamo cosa farcene.
Intanto ci muoviamo per rendere il discorso più affannato e per articolare il corpo su binari di parallela derisione del discorso stesso. Ogni tanto mi spengo e ogni tanto mi riaccendo. Più o meno scarico. Però rimango impiegato. Operaio ben pettinato.
Inaugurando “Grandi Pianure 2019”, gli spazi (sempre più) sconfinati della danza contemporanea tracciati da Michele Di Stefano per il Teatro di Roma, “Avalanche”, del neo Premio Ubu Marco D’Agostin (miglior performer under 35), è riflesso e mancato, marcato rispecchiamento di quel che siamo, immersi nel vuoto del presente, carichi di ferite invisibili, con la pacatezza di chi non sa cos’è più il ribellarsi né il divergere. Nella demenza precoce ma non feroce, prima dell’articolazione, pieni di fratture: la valanga è passata e ci ha schiacciati senza che quasi nessuno di noi se ne sia accorto.
La sintassi declina, la scena è vuota, bianca, con progressive e lente variazioni di luce. In parte compiacenti, in parte compiaciuti, in cerca di icone o semplicemente di amici, o di una nuova identità, come figurine riconosciamo dalla faccia chi ci capita di incontrare, chi ci si ritrova davanti. Siamo noi stessi parte di un grande album da collezione?
Più che nelle alte vette indicate nel foglio di sala distribuito, dove si parla di “costante tensione verso l’infinito dell’enumerazione”, la “sinossi” dello spettacolo si trova paradossalmente meglio descritta negli scritti di un celebre autore polacco (sì, proprio Kantor) che parla della vita, realtà del rango più basso: “I personaggi della classe morta non sono individui univoci. Quasi fossero imbastiti e incollati con parti diverse, con residui dell’infanzia, delle sorti vissute della loro vita passata, coi loro sogni e le loro passioni, ad ogni istante si scompongono e si trasformano nella motilità dell’elemento teatrale, tendendo inesorabilmente alla propria forma definitiva […] che rinchiuda in sé tutta la memoria della classe morta!”.
E in effetti Marco D’Agostin e Teresa Silva sono interpreti e portatori, contenitori e collettori difettosi di un accumulo di segni, segnali, conduttori di impulsi che a volte si incontrano e altre no, per destino, casualità o ferrea invisibile struttura. Ancora, insomma, la nostra balbettante e afasica, semi-apatica, condizione attuale.
Così continua Kantor: “I personaggi della classe morta, osservando lealmente le norme del rito teatrale, assumono un qualche ruolo di qualche pièce, ma non sembrano attribuirvi un peso eccessivo, lo fanno come in modo automatico, per vecchia consuetudine; ci permettiamo perfino di supporre che, quasi ostentatamente, non vi si riconoscano, come se ripetessero solamente frasi e comportamenti altrui, per poi rigettarli con facilità e senza scrupoli; quei ruoli, come se fossero male imparati, si scompongono ad ogni istante, si creano delle gravi lacune, mancano molti brani, siamo costretti a fare congetture e a intuire il resto”.
Così i performer di “Avalanche”, danzatori che parlano o cittadini del mondo alle prese con le falle della propria memoria, si presentano dentro un flusso che si perde in mille rivoli e frana su sé stesso. Agiamo di riflesso, per giustapposizione da zapping mentale, tra norme di sicurezza e cinture da allacciare, messaggi pubblicitari e convenevoli, canticchiamenti e frasi al vento, nella casualità balistica di certi incontri struggenti e indimenticabili.
Nell’accumulo di oggetti mentali, e giocando con altre storie di archivisti visionari, ogni cosa è adesso troppo poco illuminata, la vertigine della lista provoca smarrimento, l’esaurimento dello spazio è rimandato ad un altrove più radicale.
Conclude Kantor: “Questo modo di creare apparenze, negligente provvisorietà, dozzinalità, superficialità, questi brandelli di frasi, gesti che si estinguono subito, mere intenzioni, tutta questa mistificazione: come se davvero si recitasse un dramma, questa “inutilità” – soltanto essi possono fare in modo di darci la percezione e la sensazione del grande vuoto e del confine ultimo della morte”.
Cosa resta dopo la valanga? Oggi è risaputo che la classe si è ridotta, decimata dai budget a disposizione di produttori e operatori; le comunità sono invisibili o invivibili e l’affollamento fa capo soprattutto alla propria interiorità.
E se mi ricordo tutto (ma poi così non è) – ci rammentava Enrico Ghezzi in una notte di molti anni fa – è perché lì dove accadevano le cose, io non c’ero.