Avignon 2010. La difficoltà di parlare del nostro tempo

Avignon 2010
Avignon 2010
Il pubblico durante il Bal del 14 luglio diretto da Rodolphe Burger (photo: festival-avignon.com)

E’ appena finito. Ieri. Ci siamo stati. Parliamone.
Ciò che a caldo viene in mente è la difficoltà di scegliere, nel nostro tempo, un punto di vista stabile, un centro di gravità permanente. O, nel caso di una scelta artistica, di dare la possibilità di esprimere il proprio, in un contesto come quello che stiamo vivendo, fatto di ipotesi frammentate, di liquido sentimento di trasmutazione della forma sociale, di sbandamento identitario. “Un centro di gravità permanente che non ci faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente…”.

L’anno scorso Avignone aveva scelto il punto di vista esterno. Era un po’ come vedere l’Europa raccontata da fuori. L’edizione 63 della rassegna aveva lasciato il sapore di un treno in corsa, di cui si colgono a volo fotogrammi di vita che si svolgono dentro le carrozze: un convoglio senza destinazione, lanciato a velocità neanche tanto folle, verso un domani di grandi cambiamenti.
Dopo il 2008 di Valérie Dréville e Romeo Castellucci, il 2009 si era infatti affidato alla sensibilità dell’occhio esterno di Wajdi Mouawad (associato a Joël Jouanneau).
Ma anche altri artisti come Stefan Kaegi, dei Rimini Protokoll, avevano parlato delle altre identità che l’Europa sta vivendo al suo interno: le altre comunità, il confronto con ciò che ci inizia a vivere dentro, che a volte sembra parte di noi, del nostro essere millenario, e altre volte metastasi. E se la voce del muezzin era in Egitto, certo era impossibile non pensare all’egiziano che è nostro vicino di casa, o ci è seduto a fianco nel bus.

Quest’anno, edizione 64, quella il cui logo è un’omino stilizzato in caduta libera, come un punto esclamativo au-contraire, il sentimento era del tutto opposto, era quello dell’Europa che si ribella a se stessa, che dà voce alle forze centrifughe delle minoranze assediate e delle maggioranze stanche, senza riuscire a trovare il bandolo di una complicata matassa.
Una sorta di lotta con il proprio gemello siamese, il potere stanco di se stesso, che cerca l’eremo nel quale rifugiarsi in un solipsismo tossico, e un popolo che urla la sua protesta inascoltata e confusa, sovrastata da un rumore di fondo che si fa sempre più assordante.

Ecco allora la processione laica nella cripta delle angosce, ricostruita nel cortile del Palazzo dei Papi e raccontata da Marthaler in “Papperlapapp”. Un’invettiva dura contro il clero, dove l’unica terribile sensazione che il pubblico porta a casa dopo tre ore di requisitoria sull’eredità pesante degli ultimi dieci secoli di fardello ecclesiastico è un senso di precarietà e disturbo. Ad un certo punto tutto trema, la scalinata degli spettatori viene assediata da vibrazioni prodotte da altoparlanti lanciati a mille nella riproduzione di un suono che sembra quello di un aereo che sta per decollarci sotto i piedi. Buio. Un violoncellista, che sbuca da una bifora illuminata, suona una non melodia, una stridula colonna sonora per il non essere. Si ha perfino paura. In alcune repliche il pubblico si allontana, impaurito o infastidito. Certo non neutro.

Di lì a qualche giorno il Palazzo dei Papi ospiterà il “Riccardo II” di Shakespeare, un testo in cui il protagonista, re suo malgrado, riscopre l’identità fanciullina proprio nel lasciare il potere, nell’allontanarsene in un altrove di ruolo che però il destino non concede. E forse è in questo il tragico momento dell’Europa: vorrebbe essere altra da sé, arroccarsi in un rifugio di montagna come i protagonisti di “Un nid pour quoi faire” di Olivier Cadiot & Ludovic Lagarde su testo di Olivier Cadiot, l’altro artista associato all’edizione di quest’anno. In questo rifugio un re decaduto, dai tratti fintamente napoleonici, vive attorniato da una corte molle e adagiata su se stessa, come in un dipinto di Alma Tadema.

E qui viene fuori l’altra anima dell’Europa, quella del nonsense à-la-Ionesco: il re sta per morire, si fa festa, nessuno si preoccupa di quello che sarà, men che meno il re, preso dal suo ruolo come l’Europa burocratica e divisa del nostro tempo.

Divisa almeno in due: governanti e governati, distanti, incomunicabili, come i protagonisti di “Delirio a due”. E se la messa in scena che fa Christophe Feutrier del classico di Ionesco è bella e neutra, nel suo familiare astratto quasi extraterrestre, il sentimento che la lega a tutto il resto è quello del parlare senza essere ascoltati, dell’inutile e vegliardo discutere su diversità più pretestuose che reali, dietro cui si celano solo interessi altri, magari economici, mentre fuori esplode la rivolta. Come la nostra vecchia e inutile Europa, i cui governanti dibattono con acrimonia l’un contro l’altro se si tratti della lumaca o della tartaruga, mentre fuori…

Nelle prossime settimane vi racconteremo il festival dal di dentro, con voci, interviste e immagini. In e off raccontati dai protagonisti. Un video reportage che raccoglie moltissime voci, sentimenti del teatro, sipari del nostro contemporaneo.

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