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Da Azioni Fuori Posto a Tiziano Fratus: la natura, alle Esperidi, è un arcipelago

Crossing Experience (ph: Alvise Crovato)

Crossing Experience (ph: Alvise Crovato)

Con Michele Losi, Bruno Cappagli, Teatro Telaio e Oscar De Summa la prima parte del festival brianzolo, tra camminate nei boschi e sogni a volte tormentati

Un festival che cambia continuamente pelle, mantenendo la propria personalissima cifra. Il Giardino delle Esperidi, giunto alla XX edizione, ci accoglie nel contesto naturalistico del Monte Barro. Raggiungiamo la chiesetta incompiuta di San Michele, nell’omonima frazione di Galbiate (Lecco), attraverso una stradina in salita.

È uno scrigno a cielo aperto quest’edificio mai adibito al culto, il soffitto provvisorio crollato e mai ripristinato nel 1939, da cui si può ammirare il cielo stellato. Tutt’intorno, la natura la fa da padrona. E cattura i bambini con “Storie sopra e sotto l’albero”, di e con Bruno Cappagli (La Baracca – TeatroTestoni Ragazzi). Il monologo interattivo interseca varie storie (“Sette minuti dopo la mezzanotte” di Patrick Ness, “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, “Il barone rampante” di Italo Calvino) per stringere un patto d’armonia tra l’uomo e l’albero. Non manca, da parte di un Cappagli magnetico e diretto, l’omaggio all’amico Paride Allegri, partigiano, agronomo, ambientalista scomparso nel 2012, attivista che ha piantato tremila alberi con le sue mani per ripopolare una terra sconquassata dai cambiamenti climatici. Chiusura con la “Carta dei diritti delle piante” coniata da Stefano Mancuso: otto articoli a sancire l’alleanza con la parte vegetale dell’universo, letti uno dopo l’altro da altrettanti bambini volontari tra il pubblico.

Sono dei tragitti multisensoriali quelli di “Just walking” di Michele Losi, tra borghi e boschi. Da Villa Bertarelli (Galbiate) a San Michele, dalla stazione al cimitero degli appestati di Olgiate Molgora attraverso sentieri e piazze, armati di cuffie e di spirito poetico e rivoluzionario, ammiriamo le bellezze paesaggistiche attorno a noi. Catturati dalle musiche di Luca Maria Baldini, guidati da Stefano Pirovano, Marialice Tagliavini, Giulietta De Bernardi e lo stesso Losi, apprendiamo la tecnica del camminare come sfogo, riflessione, meditazione. Ci confrontiamo con vari camminatori della storia, dalle madri di Plaza De Mayo a Mao Zedong, a poeti come Rilke e Austen. Apprezziamo una drammaturgia site specific che diventa consapevolezza e sguardo rinnovato sul territorio. C’è libertà e partecipazione in quest’atto politico che crea alchimie anche nel popolo nomade degli spettatori. Perché ci si conosce anche camminando. E marciando compatti, si crea il senso di una comunità in dialogo con lo spazio.

Tra i costruttori dei movimenti di “Just walking”, figura Filippo Porro. Che ritroviamo nella sua veste pienamente progettuale, drammaturgica e coreografica con Silvia Dezulian e AzioniFuoriPosto nel suggestivo scenario della chiesa di San Michele. Nembi e tuoni per “Rimaye. Un disvelamento materico”, performance glaciale che vede in scena, con gli ideatori, anche Lorenzo Morandini, Gloria Trolla e la piccola Dorotea Porro.
“Rimaye” in savoiardo è il crepaccio in un ghiacciaio situato al confine superiore tra il ghiaccio in movimento e l’ambiente immobile. “Rimaye” è dunque il luogo della minaccia, ma anche della possibilità.
La performance è un lavoro politico e poetico. Il ghiacciaio in scena nasconde vite ed erutta vita. È cuore pulsante, ectoplasma popolato da creature inermi. Sprigionati, i performer si muovono circospetti in un territorio alieno. È una danza sincopata di figure irrelate, sotto le luci lunari di Maria Virzì. Quest’umanità allo sbando eppure resiliente, che ha smarrito l’euritmia anche nel comunicare, conia un nuovo esperanto per arginare la babele degli occhi avidi di interessi e potere. La “possibilità” è nel candore giocoso della piccola Dorotea, che avanza sulla scena con la sua treccina e la curiosità ilare di Dorothy nel “Mago di Oz”, con la stessa andatura trasognata, ma con uno sguardo avventuroso schietto e audace.

La prima domenica del festival la pioggia battente bersaglia la lunga “Crossing Experience” guidata da Michele Losi attraverso boschi e radure. Si procede da Villa Bertarelli a Galbiate, a Cascina La Fura a Ello, fermandosi a pranzare nel borgo millenario di Figina. Momenti conviviali arricchiti dalla poesia. Ascoltando i versi scritti e letti da Tiziano Fratus e Daniela Parafioriti. È un’immersione nella maestà degli alberi. Fratus è sciamano che ci inizia ai segreti della flora, alle vibrazioni millenarie di baobab e sequoie, ai misteri di boschi inaccessibili per la mente stessa degli uomini.
Cercatore d’alberi, Fratus. Come i pescatori di perle di Bizet. Come Diogene cercava l’uomo. Fratus trova l’uomo e sé stesso attraverso la flora. Esperto di meditazioni buddiste e pratiche Zen, connette affabilmente anche noi alla spiritualità selvatica dei boschi. La parola è veicolo di riconciliazione con il creato, di cui rappresentiamo la principale minaccia. In “Pastorale minore”, Fratus rifà il verso a Wislawa Szymborska: «Chiedo scusa al filo d’erba e chiedo scusa all’usignolo che batte le ali in gabbia e chiedo scusa al ruscello di cui ho deviato il corso e chiedo scusa al mare che ho inquinato. Chiedo scusa anche al bosco che ho bruciato e tagliato, chiedo scusa all’aria che fatica a penetrare nei polmoni, chiedo scusa ai laghi che ho prosciugato e chiedo scusa a te mondo mio, che ho contaminato con parole velenose».
Tardo pomeriggio all’insegna della bellezza salvifica, con le mille citazioni di Oliviero Ponte di Pino da Pasolini a Dostoevskij, da Carlo Mazzantini a Marinetti, da Todorov a Rilke, a Breton.

L’inizio del secondo weekend è una costellazione di sensazioni, emozioni, sentimenti, ricordi. L’installazione “Arcipelago” di Teatro Telaio, curata da Angelo Facchetti e Francesca Franzè (performer Mariasole Dell’Aversana, premio Eolo 2023 come miglior progetto) è ad altezza e dimensione di bambino. Nel cortile di Villa Besana a Sirtori, piccole tende come scrigni, sepolcri, castelli onirici. Dentro ciascuna installazione, illuminata nella notte a creare uno scenario dantesco, un cartiglio: indicazioni come profezie sibilline. I cartigli su un mucchietto di sabbia, arrotolati come mappe di un’isola del tesoro, suggeriscono l’interazione con girandole, fossili, conchiglie, forzieri, specchi, case in miniatura. Siamo chiamati anche noi adulti a riscoprire e attraversare il nostro mondo fanciullo. Prima di naufragare in un anfratto di tappeti. Ascoltando voci remote di bimbe e bimbi, in una sorta di notturno e surreale canto delle sirene.

Oscar De Summa in Rette parallele (ph: Alvise Crovato)

Il mondo fanciullo, le memorie adolescenziali, le origini, la vita di provincia costellano anche “Rette parallele sono l’amore e la morte”, ultimo lavoro (ancora embrionale?) di Oscar De Summa, con il contributo a luci e scene di Matteo Gozzi.
Ancora una volta la vita, i sogni, i tormenti di un Sud periferico e dannato, con la voglia di evadere e la paura di essere felici. Ancora echi autobiografici.
Due ragazzi che si innamorano, troppo diversi e con il cuore troppo gonfio per vincere la sfida di un volo condiviso. Maria Rosaria e Peppino sono i gemelli maledetti di Anna e Marco di Lucio Dalla. Non trovano la strada per le stelle. Il lato nascosto della luna è troppo scuro per custodire l’America, anche quella immaginaria.
Morire d’amore per non morire di noia. De Summa interseca la fisica quantistica e il calcolo delle probabilità. Lasciandosi guidare dal dubbio, che è «il privilegio di chi ha vissuto».
L’attore brindisino commuove, nella notte buia di Villa Besana, con la sua voce roca e vellutata, scaldata e dilatata dall’uso del microfono: capace di fare tutt’uno di musica, suoni e parole. Sulla scia, luminosamente fragile, di icone rock anni Ottanta come David Bowie e Aerosmith.

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