Per Bandini e Favaro, una Vera Tragedia

Photo: Studio Pagi|Photo: Studio Pagi
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“Come la virtù, anche la colpa ha i suoi gradi”
(Jean Racine, Fedra IV, 2)

Fingiamo spesso di prestare poca attenzione agli abiti, alle apparenze. Guardare oltre ci rasserena, ci rilassa, illudendoci di essere in grado di penetrare la materia profonda, quel viluppo ribollente che è il cuore (presunto) della verità. E invece ci limitiamo soltanto a oltre-passare l’ostacolo, senza preoccuparci minimamente di affrontare il problema, la “vera tragedia”.

La componente esteriore, visiva, di questa “Vera tragedia” – che spazia dal perimetro luministico all’assetto scenico – merita invece di essere osservata con cura. Poltrone scandinave in velluto magenta, lampade da terra anni Quaranta, piano di calpestio en pendant (così ampio da incutere un leggero horror vacui). Colpiscono tuttavia, anzitutto, i costumi di Marta Solari: alcuni informali, altri di foggia più elegante; alcuni retrò, altri quotidiani.
Da parte loro, i quattro aberranti figuri – ben acconciati per lo show, ma mal-vestiti (non me ne voglia l’attrice) di orrorifiche tendenze – mostrano, con fare ora castigato, ora ostinatamente discinto, più che sé stessi, un intenso disfacimento, che fa perdere allo spettatore qualsiasi appiglio sicuro, qualsiasi rotta, qualsiasi punto di riferimento.
Ha scritto giustamente la giuria del Premio Scenario 2019 (di cui “Una vera tragedia” è risultata opera vincitrice): “È un’originale sperimentazione del dispositivo drammaturgico, in cui il testo incombe sulla scena in forma di proiezione e procede con sorprendente autonomia scardinando il rapporto fra testo e azione drammatica. L’identità biografica e psicologica dei personaggi è continuamente resettata e messa in crisi in un interno borghese che richiama l’immaginario lynchiano e le atmosfere sospese e inquietanti dei dipinti di Hopper”.

Ad essere portato in scena dal giovane Alessandro Bandini e dal resto del cast, al di là di quanto raccontato nel foglio di sala, è appunto questo continuo e insanabile alterco di istanze; una polarità che diviene schizofrenia e che abita l’individuo “senza qualità” impedendone ogni stabile definizione.
Le notazioni della scrittura scenica – dalla componente testuale a quella gestica – si tendono e si rilassano, si sfibrano e si ricompongono, in un grande “gioco al massacro” che – pur con sottili dialoghi da perfetto dramma borghese, via via out of sync rispetto alle proiezioni sovrattitolari – infligge a tutti (chi guarda e chi è guardato) profonde cicatrici. Cicatrici che nel finale, poi, sferzate letali. Dal lentissimo e mesmerico incedere iniziale della brava Marta Malvestiti (che ora mi perdonerà per il gioco onomastico) ad agilità di fattura più anguillesca (piccolo inside joke di chi scrive per chi legge…): ogni elemento dà un senso di crisi, di instabilità. Chi è allora il colpevole? Al bombardamento stroboscopico fanno da contrappeso momenti di maggior distensione, per uno spettacolo davvero intenso, che ci si augura possa girare ancora molto (soprattutto per “riscaldarsi” un poco in alcuni suoi nodi).

Per provare a penetrare più in profondità entro le maglie di quest’opera – in prima nazionale sul palco del Teatro Astra di Torino a fine ottobre, prima della perentoria chiusura degli spazi di rappresentazione – abbiamo chiesto ad Alessandro Bandini e Riccardo Favaro, rispettivamente autore e interprete (nonché entrambi registi), di narrarcene la genesi e i mutamenti.

Photo: Studio Pagi
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Com’è nata la scrittura di questo spettacolo e com’è cambiato nel passaggio dal Premio Scenario 2019 al Festival delle Colline Torinesi? Quanto ha inciso la situazione attuale, tra mascherine e distanziamenti, sul recente allestimento?
RF: La prima stesura del testo risale a due anni fa. Le condizioni personali e della realtà circostante erano così distanti dalla stringente attualità che provo come un senso di vertigine nell’immaginare che cosa potrebbe accadere se scrivessi “Una vera tragedia” oggi, ex novo. Eppure la ri-scrittura è stata inevitabile, oltre che necessaria. Quando ci siamo ritrovati, nel corso dell’estate, a ripensare allo spettacolo, eravamo appena usciti dalla prima ondata di questa pandemia. Ma tutto ciò che è stato modificato – dapprima sulla carta e poi in scena – credo fosse già inscritto nelle mie intenzioni di drammaturgo e nel nostro sguardo di artisti. Non c’è stato bisogno di attraversare un periodo così faticoso per avvertire l’esigenza di una scrittura diversa, connessa cioè all’idea che la forza della parola teatrale sia la persistenza di una “volontà di morte”. Dal primo studio, passando per la vittoria a Scenario 2019 e approdando poi alla produzione a Lugano, sostanzialmente è cambiata la seconda parte. Del testo di un tempo, infatti, resta ora solo la figura del Figlio, la cui mortificazione non passa più, tuttavia, per un gioco dialogico, ma per una vera e propria scelta di annientamento. C’era bisogno di un’assunzione di responsabilità, anche a costo di complicare ulteriormente il lavoro: il testo, in scena, doveva proseguire il discorso, negare la parola dell’attore, affondare pienamente nella contraddizione, privare di qualsiasi via di fuga gli interpreti. Così è naturalmente emersa una visione dei rapporti umani che santifica, inconsapevolmente, un cupo determinismo. E paradossalmente non abbiamo fatto altro che dare corpo e voce alla stessa asfissia di questi mesi.

AB: Lo spettacolo ha avuto una gestazione di quasi due anni: abbiamo letto il testo insieme quando ci conoscevamo appena e da lì è rimasto il desiderio di indagare quel materiale violento, doloroso. Un coacervo emerso fin dalla prima lettura. Il passaggio da Scenario all’Astra è stato ricco di cadute, di smarrimenti, di notti insonni, di piccoli e grandi risultati, di un grande lavoro corale. Per questo ci tengo molto a ringraziare coloro che hanno dato vita, sudore, carne e lacrime a questo spettacolo: gli interpreti in primis (Marta Malvestiti e Petra Valentini, Alfonso Devrese, Flavio Capuzzo Dolcetta) e anche i collaboratori artistici (Elena Rivoltini, Pietro Bonomi, Marta Solari e Giorgio Morandi). Viste le difficili circostanze patite di recente dal teatro e dal mondo della cultura, vedere una realtà come il LAC di Lugano darci grande fiducia, permettendoci di portare avanti una riflessione, una ricerca, non è affatto scontato: ci ha teso la mano, prendendosi carico del progetto di due artisti giovani. Ci ha permesso di esprimerci, di dire la nostra.

Un’estetica luministica e quasi cinematografica, la vostra. È così? Quali suggestioni sono disciolte nello spettacolo?
AB: Sicuramente, durante il lavoro, ci siamo fatti influenzare da quella che è la dialettica di luci e ombre, di svelamento e nascondimento, già insita nel testo. Alcuni aggettivi che ci sono stati attribuiti – come lynchiano – sono posteriori, per così dire preterintenzionali. È come se – mentre lavoravamo sul testo – fosse dilagata, in maniera prepotente e del tutto autonoma, l’estetica dell’allestimento. I nostri riferimenti, successivamente, sono poi stati Polański, Lynch ovvviamente. Quelle atmosfere cupe, violente, algide, in qualche modo austere. Per quanto riguarda la luce, penso che essa segua il percorso del testo (intendo proprio i sovrattitoli che scorrono alle nostre spalle). La funzione stessa che la drammaturgia assolve nello spettacolo è piuttosto evidente: in parte nasconde, in parte disvela. Volevamo negare e insieme accompagnare l’aspetto psichedelico che la luce assume fin dall’inizio. Una vera tragedia mi ha permesso di compiere dei furti: sì, dalle pellicole più significative del cinema. È stata una scoperta continua. Sempre nel tentativo di ricreare una certa atmosfera, un certo pensiero. L’immaginario però è anche pittorico: poco prima di Scenario mi trovavo a Roma e vidi una mostra ero stato a vedere una mostra di Francis Bacon, Lucian Freud e la Scuola di Londra al Chiostro del Bramante. Mi colpì molto il pensiero di Bacon riguardo la messa su tela delle figure.

RF: Per conto mio faccio fatica a pensare di avere compiuto una qualche scelta di carattere estetico, se non altro perché non sono un regista e forse non ho nemmeno le qualità per ambire ad esserlo. Sicuramente però, sia io che Alessandro abbiamo messo a disposizione della realizzazione scenica il nostro mondo di appartenenza, con immagini e suggestioni annesse. Per quanto mi riguarda, sicuramente ho un rapporto intellettuale, ma anche emotivo, con modelli visivi cinematografici: da Nicholas Ray ad Alfred Hitchcock, solo per citarne alcuni. Ho una forma di venerazione per il cinema di C.T. Dreyer, ma anche Luis Bunuel e Roman Polanski. Durante le prove mi sono reso conto che il rapporto tra la madre e il padre ricalcava, in senso ampio, molte dinamiche presenti in “Rosemary’s Baby” di Polanski. Non mi sorprende particolarmente, visto che è forse il mio film preferito. Ma non avevo messo a fuoco il fatto che mi avesse influenzato a tal punto.

Lo spettacolo pone al centro un rapporto familiare in parte aberrante, in parte (forse) archetipico. Che tipo di famiglia è quella che avete portato in scena e perché siamo così atavicamente attratti da questa relazione, da questo ambiente?
AB: La famiglia, per me, è il luogo dell’assenza e dell’abbandono. Quando penso agli spettri che popolano il palco di “Una vera tragedia” immagino un’estrema fragilità; la parola, il verbo, che scorre alle loro spalle è altrettanto fragile; nel contempo però dittatoriale. La famiglia è insomma il luogo in cui si instaurano i rapporti di maggior violenza: spero che questo elemento traspaia all’interno dello spettacolo. È un continuo fallimento quotidiano. Che talvolta precipita in un gorgo rovinoso.

RF: È vero, in parte è una costruzione che può essere immaginata come archetipica, in parte invece gioca su stilemi di carattere psicologico. Ma la volontà era proprio quella di elaborare un minaccioso equilibrio tra queste due realtà, tra due orizzonti tanto diversi quanto votati al medesimo fino: una chiusura su di sé, un ribaltamento delle prospettive che non lascia spazio a beatificazioni del “sentimento”. In questo senso, per me, la famiglia non è altro che un campo dialettico che in scena cerca solo, disperatamente, di annullarsi: vuole trasformarsi nel proprio opposto, dunque vive solo ed esclusivamente in funzione di un desiderio di incomprensione. Io non credo sia una visione pessimistica dei rapporti umani. Si tratta più che altro di una riflessione sulla necessità di mettere a nudo le prevaricazioni del linguaggio domestico, quello a cui siamo inevitabilmente più affezionati. Anche nelle piccole storie, in una piccola ma cruenta vicenda familiare, si reitera un sistema spietato. Il Figlio giusto, quello da salvare, non è né il più premuroso né il più virtuoso, ma semplicemente quello che dice le parole giuste, quelle che il Padre ha la presunzione di imporre e che la Madre deve ingiustamente accettare. E le parole giuste sono quelle che devono essere rappresentate. Così si torna al principio, alla domanda: chi decide cosa deve essere rappresentato? Ed è un vortice che lascia senza punti di riferimento.

UNA VERA TRAGEDIA
di Riccardo Favaro
progetto e regia Alessandro Bandini, Riccardo Favaro
con Alessandro Bandini, Flavio Capuzzo Dolcetta, Alfonso De Vreese, Marta Malvestiti
con la collaborazione artistica di Petra Valentini
disegno e realizzazione scene Giorgio Morandi, Marta Solari
costumi Marta Solari
disegno sonoro e composizione musiche Elena Rivoltini
disegno luci Pierfranco Sofia
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Teatro i
spettacolo vincitore del Premio Scenario 2019
presentato con Asti Teatro

durata: 1h
applausi del pubblico: 4’ 30’’

Visto a Torino, Teatro Astra, il 20 ottobre 2020
Prima nazionale

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