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La chiave del successo per Bardha Mimòs: portare il teatro dove non c’è

Theatrify (ph: Davide Aiello)

Theatrify (ph: Davide Aiello)

150 spettacoli per 8mila spettatori sparsi in undici quartieri: il bilancio di una settimana di FringeMi Festival

Centocinquanta spettacoli, distribuiti su cinquanta palchi della città. Una settimana di cultura gratis (o quasi) a Milano per il FringeMi Festival, rassegna di spettacolo indipendente dal vivo capitanata da Davide Verazzani, Ippolita Aprile, Giulia Brescia, con Silvia Rudel e Matteo Russo. Insieme sono i Bardha Mimòs.
Il risultato sono stati 8mila spettatori distribuiti per undici quartieri, per luoghi noti e meno noti della città. Con uno sguardo alle zone periferiche, la cui anima spesso sfugge ai cittadini milanesi frequentatori del centro e di spazi tradizionali.

Del totale, sedici spettacoli facevano parte della rassegna ufficiale. Il pubblico doveva valutarli. Il più votato il prossimo anno entrerà nella stagione ufficiale del Teatro Elfo Puccini. Il prescelto del pubblico è “Mi manca Van Gogh”, spettacolo andato in scena allo Spazio Polline di Villapizzone, in cui la biografia del pittore fiammingo si sovrappone a quella dell’autrice e interprete Francesca Astrei.

Il premio della redazione di Stratagemmi è andato invece allo spettacolo “Theatrify” di Francesco Altilio, Alessandro Balestrieri, Eleonora Paris e Riccardo Romano: «Una realizzazione – questa la motivazione – che è riuscita a incarnare al meglio lo spirito del Fringe, che valorizza il legame tra pubblico e performance in uno spazio non convenzionale, un’intuizione che restituisce in maniera originale grandi classici del teatro in una forma volutamente contaminata dai dispositivi contemporanei».

Giulia Brescia traccia il bilancio «ultrapositivo» del Fringe: «Quando nel 2019 è nato Nolo Festival, non immaginavamo di espanderci così tanto in pochi anni. È stato bello realizzare questa crescita, e individuare undici associazioni per undici quartieri capaci di coalizzarsi per rendere questo sogno possibile. A fare da collante è la passione per l’arte. Il Fringe è un modo alternativo di esprimere il proprio talento. Noi abbiamo avuto la fortuna di individuare tante persone, ognuna capace di valorizzare la propria area di competenza e interesse. Abbiamo pianificato per mesi un festival inclusivo, fatto di concerti, teatro, performance e spettacoli itineranti. Attrici e attori molto giovani hanno avuto la possibilità di mostrare il loro talento. Il festival ha attirato un pubblico numeroso e variegato. Ma la carta capace di fare la differenza è stata la risposta del territorio, che si è sentito valorizzato perché coinvolto nella macchina organizzativa. È stata una bella energia, lavorando dal basso, collaborando con spazi non convenzionali che non si sono limitati a mettere a disposizione un palco, ma ci hanno aiutato nella comunicazione e nel rapporto con il pubblico. È questo il senso del “portare il teatro dove non c’è”. Mi aspetto che la rete si ampli ulteriormente, fino a diventare un vero e proprio network».

Da sx: Davide Verazzaniì, Giulia Brescia, Silvia Rudel, Ippolita Aprile e Matteo Russo (ph: Davide Aiello)
Da sx: Davide Verazzani, Giulia Brescia, Silvia Rudel, Ippolita Aprile e Matteo Russo (ph: Davide Aiello)

E il festival si è mosso in angoli nascosti come Dulcis in fundo, dalle parti della via Gluck cantata da Celentano: uno spazio post industriale con mobili di design, per pasteggiare in maniera rilassata. Si esibisce qui Laura Magni con “Happy Mary”, spettacolo vincitore dei Teatri del Sacro e del Festival internazionale In Scena! 2018 Teatro italiano a New York.
Il soggetto di Lorenza Pieri, con la regia di Roberta Lena, vede al centro una Madonna in tuta sportiva e scarpe da ginnastica, in perenne corsa sul posto. Monologo tra misticismo e psicanalisi. Che spesso diventa dialogo semiserio tra una giovane e sua nonna, per riflettere su femminismo e ascetismo, misoginia e santità. Stand up mariology. Viaggio tra gli stereotipi di cui sono vittime le donne, con il merito di indagare il personaggio di Maria, forse la figura simbolo più pregata e fraintesa del cristianesimo.

Dal profano al sacro e ritorno. Qualche centinaio di metri e si arriva al Tranvai, bizzarro pub ricavato in un tram di quelli retro, piazzato sulla Martesana. Assistiamo a “Va bene così”, frizzante monologo comico di e con Greta Cappelletti, reduce da anni di collaborazione con Liv Ferracchiati. Risate dolciamare, su temi come la Milano internazionale che chiude le saracinesche dei ristoranti alle 22 e la metro alle 24. Sul divampare delle pokerie che distribuiscono cibo nei secchielli ripartiti per categorie. Sul pedagogismo che si prende troppo sul serio, se è vero che Fondazione Prada chiama l’area deputata ai giochi per l’infanzia “Accademia dei bambini”.
Milano, la città dove persino i francesi ci correggono la pronuncia, anche quando vengono a chiederci informazioni. Albagia d’Oltralpe, e Cappelletti vagheggia una Parigi popolata di romagnoli. E intanto sorridiamo su temi come la convivenza con i suoi slanci sentimentali, che si arrestano davanti alla toilette quando ci si siede sulla tazza, e davanti ai regali simpatici quando non si sa più cosa regalare.
Comicità colta, con citazioni da Battiato a Dante. Comicità colta in “fallo”, con ironie sulle menate in camera da letto. Comicità che sdogana i vizi di noi umani, con qualche invidia per il mondo animale.

Va bene così (ph: Davide Aiello)

FringeMI, ovvero della femminilità. Femminilità al quadrato. La troviamo in “Lei Lear”, coproduzione Scarti, Teatro C’Art e Muchas Gracias, di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco. Regia di André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco per questo bislacco monologo a due voci vincitore del Premio PimOFF per il teatro contemporaneo 2021 e del Festival Inventaria 2021. Selezionato anche per In-Box 2022 (con menzione speciale) “Lei Lear” è un battibecco tra le sorelle shakespeariane Goneril e Regan.
Parenti serpenti in gonnella. Dilaniante rivalità familiare. Tradimento e ipocrisia. Adulazione e reato. Cattiveria allo specchio grottescamente sublime. Le protagoniste sono sue opposti che si attraggono. Sono un mostro a due teste. Sono lingua biforcuta tagliente, tra smorfie, sorrisi e sorprese.
Dimorfismo cacofonico. Suoni sinistri. Comicità noir in occhiali da sole, dagli echi beckettiani, e in filigrana altri drammi del Bardo, da “Amleto” alla “Tempesta”. Umorismo nonsense, fatto di follia. Spettacolo di niente e con niente, e un rimbalzo di sguardi che si riversa sul pubblico. Soprattutto, la specularità del male che ci rende controfigure, caricature, fantasmi in fuga dalla nostra umanità.

Chi invece l’umanità la cercava, e la trovava nell’infanzia reietta, in quelli che ora chiamiamo “bisogni educativi speciali” e liquidiamo nella scuola con un PDP, era Don Lorenzo Milani. Don Milani, prete ribelle di cui abbiamo appena celebrato il centenario della nascita, proponeva un modello di scuola salvifico, tarato sui bisogni degli ultimi. Beppe Casales lo omaggia in “Cara professoressa”, monologo andato in scena alla Biblioteca di Baggio.
Baggio sta a Milano quasi come Barbiana stava a Firenze. Don Milani metteva la sua tonaca al servizio di studenti poveri, in virtù di quella povertà giudicati privi di talenti. Povero di talenti sembra anche Gianni, il bidello protagonista di questa storia. Dalla sua prospettiva defilata, un bidello vede spesso meglio degli altri ciò che accade nelle aule scolastiche, tutto il buono e tutto il marcio che passa tra i banchi.
Gianni ha lo stesso nome di uno studente di Barbiana. Gianni sfoglia “Lettera a una professoressa”, lasciata sul banco da un alunno, lo sfoglia e pensa a quella scuola di sessant’anni fa, a quella frequentata da lui, trent’anni fa, alla scuola dei nostri giorni.
Senza orpelli, con pochissimi suoni e luci, Casales celebra don Milani e la sua Barbiana, frontiera di una scuola a misura di studente. Quella scuola durava la giornata intera, 365 giorni all’anno, domeniche e feste comprese. Don Milani voleva rompere gli steccati tra contadini, montanari e borghesi. Ragazzi che venivano bocciati perché ignoravano il programma ministeriale, anche se sapevano tutto del mondo e della vita reale.
“Cara professoressa” è l’inizio di una lettera sempre da riscrivere. Casales prende don Milani come portabandiera. Un giovane prete che subisce l’onta di un processo per avere istigato il diritto all’obiezione di coscienza e alla disobbedienza civile.
Oggi la scuola è ancora sotto i riflettori. Lontanissima dal modello del prete di Barbiana, o dall’attuale modello finlandese. Che intende includere e non ghettizzare, promuovere e non bocciare. Che spinge alla collaborazione piuttosto che alla competizione. Che valorizza le differenze. Che educa alla libertà, piuttosto che all’obbedienza.
Il merito di Casales è quello di riconnettere passato e presente. Nessun amarcord, nessuna agiografica. Solo una riflessione didattico-pedagogica che inchioda i docenti ai loro modelli cristallizzati, e stimola gli studenti a pretendere ciò che gli spetta.

Scuola è anche conoscenza della storia e sguardo sul mondo. Partendo dalla propria storia, quella personale, quella del proprio quartiere. “Welcome to Gorla”, organizzato da Migrantour, è una camminata dal quartiere di Gorla al Parco Trotter, guidata da tre migranti, tre donne arrivate una dal sud Italia, due dal Sud del mondo.
È la storia di un quartiere che nel 1751 era un comune di 110 abitanti, e poi è stato assorbito dalla metropoli. Durante la Repubblica Sociale, Gorla fu bombardata. È una ferita mai rimarginata la strage del 20 ottobre del ‘44, quando bombe americane colpirono la scuola elementare Crispi, causando una strage di oltre 200 persone: 184 erano bambini.
A ricordare quell’eccidio, un sacrario monumentale in bronzo contro la guerra, realizzato nel ‘47 da Remo Brioschi.
Da Gorla il cammino di Migrantour ci conduce alla Cascina Martesana, spazio polifunzionale dedicato al benessere e alla cultura. Ci spostiamo poi verso viale Padova, nella Milano multiculturale, nel ricordo delle case di ringhiera dove una volta arrivavano i meridionali, e ora si ammassano i migranti provenienti dal Maghreb, dall’Asia o dall’America Latina. Quello che non cambia è il senso di comunità, una volta favorito dal bagno in comune, ora dalla condivisione di altri elementi tra cui il cibo. Cucina cingalese, peruviana, cinese. Ristoranti egiziani, turchi, indiani. Spesso a stretto contatto di gomito. Ibridazione culinaria, ibridazione culturale. Come il murale del Dante Andino, opera di street art in cui il Sommo Poeta compare in poncho peruviano. O ancora il murale dedicato all’ambientalista honduregna Berta Cáceres, uccisa nel 2016. Tappa finale davanti alla Casa del Sole, istituto comprensivo dove ancora adesso convivono bambini appartenenti a decine di etnie.

Il viaggio nella storia prosegue in maniera virtuale nel parcheggio sotterraneo dell’Hotel Ramada con “La stanza”, esperienza immersiva in VR per uno spettatore alla volta. Giulia Ottaviano e Alba Maria Porto ci guidano attraverso materiali d’archivio, fotografie, musiche, video in Super 8 e recitazione.
Ciò che tocchiamo si anima: può essere un quadro, un diario o un cassetto. Tecnologia ancora rudimentale, un po’ un compromesso fra la nostra epoca di device e quegli anni sanciti dalle lotte. Al centro della “Stanza”, ci sono quelle per l’emancipazione femminile degli anni Settanta.

Il nostro tour si conclude al Ligera, già panetteria, ora locale vintage nel cuore di via Padova. È il teatro di “Suck my iperuranio”, di e con Giovanni Onorato. Realizzato con il sostegno di Teatro Studio Uno e Carrozzerie n.o.t, lo spettacolo è una stand-up comedy che assomiglia a una seduta psicanalitica, evocata dalla poltrona in fondo alla sala. Il protagonista sproloquia di tutto, dalla dieta allo sport, da Agamben alla passione della danza, dalla fine di un amore all’inizio del mestiere di comico.
Comicità sottovoce, dimessa, in camicia e mutande. Escursioni poetiche, partendo da Heinrich Böll e sconfinando in Jim Carrey, Bill Hicks ed Andy Kaufman, con una filigrana disincantata, distratta, che riconduce a personaggi italiani come Nanni Moretti o Daniele Luttazzi. Dalla commedia al cosiddetto stand-up poetry il passo è breve.

Arriva il sabato sera, e il FringeMi ancora trasuda di vita. A Milano chi non è al festival si piazza davanti alla tv per la finale di Champions. Una parte di Milano gioirà, l’altra si dispiacerà.
Qualche manciata di ore dopo, un’altra notizia rimbalzerà di post in post, per la scomparsa di Berlusconi. Altro spettacolo, momenti e commenti a volte imbarazzanti.
Noi ci teniamo il Fringe. Appuntamento al 2024. Con la speranza di un’ulteriore crescita.

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