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Venezia, lo spazio e i suoi fantasmi: la “classe viva” di Ricardo Bartís

Ricardo Bartís
Ricardo Bartís
Ricardo Bartís (photo: blogteatro.blogspot.com)

Provi a seguire quella che ormai, su queste pagine, somiglia a una convenzione: la seconda pagina di reportage è dedicata a loro. Quelli che erano con te a formare il cerchio il primo giorno.

Alessandro
, il decano del gruppo, veneziano d.o.c., copre campi e calli con la sicurezza del segugio e scompare quando meno te l’aspetti nel suo primo piano in Calle del Milion. Lui ha girato il mondo con la sua compagnia, parla perfettamente spagnolo e in scena è un’ancora che salva molti momenti morti. Ha il mestiere, ha la costanza e la voglia quieta di comprendere. E balla divinamente.

Cecilia ha capelli chiari e sguardo attento. Forse ancora alla ricerca di un proprio spazio, ha voce piccola e qualche coraggio da ritrovare in scena.

Deniz è nata a Istanbul e vive a Udine. In scena porta una presenza guizzante, viva, esperta. Non ha paura di sperimentare, gettandosi in una lingua che non è ancora la sua. Ha passione pura, tradotta in sguardi rapidi.

Della piccola Flavia ho visto crearsi in scena l’energia. L’ho osservata percorrere il palco con la gravità di chi calpesta con cura tutte le aiuole. Insicura, estremamente autocritica, tormenta i folti capelli neri e dice che sente la nostalgia di un testo, ma poi negli occhi gialli guizza una forza da leone e lei si è già messa al lavoro.

Francesca segue il laboratorio come assistente alla regia, al momento senza ancora un vero e proprio ruolo. Meticolosa e vigile, prende appunti e tenta di decifrare un metodo, con la voglia di farlo applicare.

Gaetano non potrebbe che venire da Napoli. Capello spettinato, accento che resta nelle orecchie, barba lasciata. Insegna teatro e mimo e tenta di costruirsi una vita in un mestiere che ama alla follia. È teatro che cammina, con la forza e l’umiltà di chi dà valore a ogni passo.

Siciliana fino all’osso, Giorgia ha la tragedia greca distribuita nella spina dorsale. Sguardo intenso, sensualità, sangue. E un’espressività addirittura eccessiva, che divora ritmi e durate, che va maltrattata, abbracciata, chiama contrasto e catarsi.

Jordi viene da Barcellona, con un curriculum di tutto rispetto. Ma qui è come se fosse vergine. Ti colpisce per come dedichi tutta l’energia agli altri. È accolito puro che manovra una presenza imponente, una direzionalità chiara. Lo sguardo di ghiaccio passa in un attimo dalla tristezza alla passione, dal riso al dubbio. Ma in lui non c’è mai paura. È una colonna solida, punto cardinale in questi esercizi di deriva.

Lidiya ha origini slave, è sposata con un siciliano e vive a Roma, dove ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia. Man mano che Bartís introduce e guida il materiale drammaturgico, da sotto i nervi tesi lei scopre vene grottesche, tempi comici che comandano il ritmo di intere sequenze.

Livia
lavora a Prato, con un progetto autoriale di cui è fondatrice e guida. Ha voglia di sperimentare, grida fisicità, gioca con un’alta padronanza del corpo, sempre all’attacco. Ha preso un giorno off per correre a far spettacolo. Ma tornerà.

Marta, romana trapiantata a Londra, è un dipinto preraffaellita, eleganza rara e armoniosa. Ipnotica, eterea nel suo assumere forme di loto e farfalle, danza con lo spazio che abita, senza vergogna alcuna. E dentro gli occhi chiari ha l’immagine di un teatro di gesti, di silenzi, di scarti e resistenze. Come quieta elettricità.

Arriva poco, nel resto d’Italia, del teatro sardo. Nicola è un attore che cerca. Vuole capire, ha il sorriso di chi accetta le sfide sapendo che è così che si cresce. Ha occhi scuri e vividi e testa liscia, che copre spesso con il cappuccio della felpa, quasi a indossare un’armatura solida. La sua rabbia, le sue grida, i suoi scatti di violenza stupiscono, quasi spaventano. Poi capisci che quello è il suo bisogno di urlare una presenza.

Viene dalla Paolo Grassi, Riccardo, con tutto un bagaglio di tecnica che lo rende leggero. Faccia a spigoli, pulita dalla postura armoniosa, slanciato e agguerrito. Anche lui ha voglia di fare, ha voglia di essere. Sceglie di mettersi in mezzo, soprattutto quando il Maestro rilancia in ballo i ritmi shakespeariani. Amleto è lui, ha una follia di dubbi e rabbia. E di sudore.

Sara è dura, massiccia, bruna, implacabile. Muscoli tesi, in scena grande avidità. Deve avere nel sangue i tratti della danza di contatto. Prende appunti, riempie lo spazio con peso possente, è un masso espressivo inchiodato alle assi del palco.

Da Barcellona Silvia ha portato la risata. La lascia andare spesso, la lascia risuonare. Dà l’impressione di voler sempre giocare. Ha gli occhi chiari che vogliono conoscere. E nelle scene tristi il suo sorriso che si riempie d’ombra, senza sparire mai.

Neus ha l’arduo compito di tradurre le indicazioni del maestro. Umile e determinata, fa di tutto per restituire il senso di un incontro, alla ricerca delle parole giuste, senza interrompere il flusso della creazione del regista.

Infine Ricardo Bartís, regista e autore argentino, attivo da più di vent’anni. Il suo non è un metodo, dice, e lui non è un maestro. Eppure nei suoi lunghi discorsi, pieni di riferimenti soprattutto a Meyerhold e Kantor, affiora una chiarezza d’intenti che è quella del teorico. Ma lui non lo sopporterebbe. Lui lavora sulla forma. Scava in scena i percorsi che portano l’attore via dal personaggio, ne diluisce il cemento in modo che i piedi della creatività non restino intrappolati. Vuole l’azione, vuole la reazione, vuole che l’attore ponga una ‘opinion’ nei confronti delle reazioni stesse. Bartís vuole riconoscere un modello scenico con il quale si possa davvero dialogare, mettere in discussione non tanto la relazione tra attore e personaggio, quanto piuttosto tra “ennesimo dicitore e testo”, laddove per “testo” intendiamo una partitura, un paradigma, il complesso di atteggiamenti che rendono viva la presenza fisica di un corpo e le donano respiro narrativo.

Allora bisogna conservare il peso della presenza, la sensualità e il potenziale erotico di un corpo in scena. Le azioni teatrali come giochi di gruppo, in cui ciascuna reazione di unisce all’altra tramite scomposizioni temporali che creano un flusso ritmico. L’intensità cresce nelle interazioni, sfocia in una catarsi, ma bisogna forzare la tecnica perché produca non un personaggio, ma un segno. Ecco perché Bartís spesso, piuttosto che parlare, si esprime a gesti, in un grammelot di scatti e urla che mettono i brividi. Perché certe cose non si spiegano a parole. E stavolta non è un problema di idioma, ma di razionalità, di emotività, di passione. Forse lì si racchiude il senso che speri che tutti gli attori, uscendo dal Piccolo Arsenale, riescano a portare con sé.

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