Esiste un luogo che è tutti gli altri luoghi. Le pareti sono soffici, il buio spesso, le luci bagliori senza contorni, l’aria crudele. Venezia è un teatro, una sala vuota, piena di tutto quello che desideri. La conosci, la senti, la crei, la vedi affondare, la osservi mentre ti cammina intorno e ha il fondo umido tipico di quegli angoli di te che hai paura a frequentare. Il suo inverno è un respiro gelido che taglia in due gli zigomi, slega le labbra a dire imprecazioni, lascia lacrime solide di condensa al di qua degli occhiali. E ti segue, ti prende, ti tiene. Ti vuole. E tu ti dai, ti concedi, ti mostri, lasci i vestiti a un angolo e avanzi nudo, armato solo di quelle parole che cominciano a mancarti, di quel senso che vai perdendo, di quel piccolo grido che cresce. E dopo muore.
Mentre passi accanto ai leoni dell’Arsenale pensi che è strano come questa Venezia somigli così tanto all’idea che hai del teatro. Un luogo senza contorni, in cui l’unica costante è una doppia presenza: azione e visione. Sei un testimone, un osservatore critico. Per far sì che le due parole si integrino a definire un ruolo, sei arrivato qui con la curiosità e l’umiltà di chi muove i propri passi per osservare, per stupirsi, per provare lo strano brivido di non sapere, di non immaginare, per stare a vedere quale materia si forma.
Minuto e solido, Ricardo Bartís ti accoglie sulla porta con un semplice “Hola, que tal?”. Ti ripari dal freddo, entri, hai tempo di firmare un foglio, incrociare un paio di facce imbarazzate, e sei chiuso nel teatro dell’Arsenale, riassunto in un cerchio, spalla a spalla con gli attori che prenderanno parte al laboratorio del maestro argentino. Di loro avrai modo di parlare più avanti, quando ti sentirai in grado di restituire a chi legge il senso del loro stare, la direzione dei loro sguardi. Per il momento, ai loro occhi e ai tuoi, non sei niente di più che un semplice intruso, uno che non si sporca le mani, che se ne sta seduto in un angolo a prendere appunti su un ingombrante gingillo elettronico che chissà mai se funzionerà.
Bartís si prende un attimo per guardare tutti in faccia, poi parla nel suo ritmo rilassato ma presente. In spagnolo recitare è actuar, in italiano più simile ad agire. Nel riscaldamento noti la grande importanza assegnata al semplice controllo del peso e alla proiezione di corpo e sguardo in una direzione precisa. Si scompongono le azioni, nella creazione di forme mimiche che siano sintesi dello stato d’animo del corpo che le produce. Forma: questa sarà una delle parole chiave per dischiudere il lavoro. Bartís vuole che i propri attori agiscano in uno spazio falso, un campo aperto a ogni immaginazione, a un’unica condizione: che si resti sempre consapevoli della presenza dell’altro.
Peso, forma e ascolto, dunque. E un filo unico che li lega insieme: el tiempo. L’attenzione costante è verso ‘el punto de vista’. Perché di pubblico Bartís non parla mai. Voi lì seduti siete il punto di vista, presenza critica che porta l’attore a mettersi in discussione. Che cosa penserà di me il punto di vista? Che ha quello, che continua a fissarmi? Eppure mi fa piacere. Siamo complici in questo piacere. Io, fossi un altro, mi guarderei per ore. Eppure che cosa orribile sto facendo, che narcisismo, che schifo.
Tutti questi contrasti deve vivere un corpo quando si presenta nudo di fronte a un punto di vista, con dentro al cuore qualcosa da raccontare. Il risultato è che, vedendo i ragazzi camminare smarriti al suono di queste indicazioni come un mantra, sembra di guardare un esercito di fantasmi, di morti, di persone che invecchiano a vista d’occhio. Perché è arrivata una domanda fondamentale: che cosa farebbe il punto di vista se io non recitassi più? È qui che irrompe il lavoro sul testo. Il Maestro ha chiesto ai partecipanti di rileggere Amleto. Al testo di Shakespeare ora va a rubare personaggi, storie, ombre, solo perché archetipi essenziali di un modo di stare al mondo. E li tratta come un esempio lampante di anime già morte che reagiscono all’interno di una macchina che continua a schiacciarli, ad annientarli: il tempo.
Il lavoro procede sul filo di una tecnica-non tecnica che è fondamentale: l’improvvisazione. Il gruppo lavora contemporaneamente, crea piccole scene che spesso non riescono a cortocircuitare. Finché Bartís non va a tracciare una linea chiara: raggruppati a coppie, un attore fa da regista all’altro e viceversa. È curioso vederli scegliersi le azioni, frustrante però sentirli intrappolati in certi sbalzi estemporanei che tolgono linfa alla creatività.
In una pausa trovi il modo di spiegare a Flavia – attrice pisana di stanza a Roma – di come tu stia cercando di studiare i singoli, per evitare di essere disorientato da un lavoro così “di gruppo”. A lei, che ha avuto occhi increduli ma attenti, hai spiegato che stai osservando un’energia prendere forma, hai confessato che speri che ciascuno di loro abbia tempo e modo per metterla in campo, per condividerla, per sintetizzarla in siero e farne un antidoto all’omologazione.
Come esaudendo una preghiera, il lavoro riprende con un’improvvisazione di gruppo che, piano piano, prende davvero le forme di qualcosa di organico. I piccoli fuochi di caos che si erano creati, micce impazzite in mezzo a quel che ad oggi è stato un lavoro quasi solo teorico, finalmente danno vita ad un falò unico, in cui le presenze sceniche hanno il posto che meritano. E tu non vedi l’ora di bruciarti, tentando di toccarne le fiamme, alla ricerca del calore di questo gruppo di anime finalmente vive.