Bartolini/Baronio: 13,9 km di una Roma che non c’è

Tamara Bartolini e Michele Baronio (photo: romaeuropa.net)
Tamara Bartolini e Michele Baronio (photo: romaeuropa.net)

C’è pure chi ci prova gusto, ma io a entrare in casa d’altri, invitato a una festa, e mettere il muso, starmene in un angolo, criticare i discorsi degli invitati, la scelta del mobilio, il rinfresco, mi sento stupido e ingrato. Un guastafeste, letteralmente.
Oltretutto, la festa data da Tamara Bartolini e Michele Baronio con il loro “13,9 km. Home concert”, in prima nazionale al Quarticciolo, dopo due tappe ai Mercati di Traiano e al Palazzo delle Esposizioni, non merita l’ombra di un appunto, quanto a ospitalità: l’allestimento scenico è perfetto e dettagliato, accogliente, il pubblico può scegliere se sedersi in platea o in mezzo al palco, sopra una ventina di sedie tutte diverse, sospese come grappoli alla graticcia all’inizio, poi calate con due tiri a vista e la lentezza di una gravitazione.

In platea decine di piccoli elementi, comodini, lampadari, libri, mobiletti che “fanno casa” rendono vellutato l’ambiente (in cui persino l’abat-jour Ikea ha un suo senso di ingenuità domestica). Le luci di Gianni Staropoli sono infallibili, e per tutto lo spettacolo, pur provenendo da proiettori tradizionali, riescono a restituire un movimento che ha in più quel calore, quell’analogica imperfezione nell’aggiustamento a vista delle alette dei sagomatori, quel profumo di polvere e gelatina cotte così tipico dei vecchi teatri – e non manca lo sfoggio di moderati sconfinamenti nel tecnologico, con un paio di sezioni di videomapping.
Le musiche di scena sono penetranti, commoventi a tratti, eseguite in parte dal notevole Coro Quintaumentata, quando non è lo stesso Baronio, accompagnato dalle raffinate ance di Renato Ciunfrini e dai plettri di Sebastiano Forte, a proporre eleganti versioni di classici della canzone.

Lo spettacolo si dipana tentando di seguire il filo di un testo di Ettore Sottsass (dovrebbe essere, salvo errori, “There is a planet”), il famoso architetto designer che gode di un momento particolarmente fortunato di critica. Ma è poco più che un pretesto. La struttura del lavoro, divisa in «esercizi», cioè capitoli, temi, sette in tutto, di cui il primo ha luogo fuori del teatro, ha comunque una sua coerenza. Essi riportano parole d’ordine che ruotano attorno a un tema centrale e che verranno poi “lavorate”: ‘convivenza’, ‘accoglienza’, ‘il pianeta’, ecc.

Il tema centrale, si sarà capito, è la casa, l’abitare, lo stare in luogo privato aperto alla condivisione, le dimensioni di quartiere, di città, il singolo di fronte alla comunità, lo stare sparpagliati contro l’idea di ‘stormo’, il concetto di ‘soglia’. Insomma, una lista di spunti quantomeno urgenti. All’interno di questi titoli, di questi gran contenitori in forma di parole d’ordine, però, non si ritrova uno sviluppo degno di questo nome bensì, fluviali, altre liste, in una pratica di nominalismo evocatorio placido e scontato. Cos’è ‘casa’, ci si chiede. L’odore del caffè, i sughi messi a fare alle prime ore dell’alba, i bisticci dei vicini al piano di sopra, i dirimpettai che cucinano il fritto, o il pollo tandoori (per non dimenticare l’irrinunciabile ‘fattore-Piazza Vittorio’); la casa dei genitori venduta, la porta che si chiude dietro di noi lasciandoci senza nido, il trasloco, il papà sognatore. E ancora, stringendo lo zoom: la Roma di una volta, il tranvetto che c’era e non c’è più, quello che rimane ancora, il 14 («Che avventura, ci siete stati mai?», ci chiedono candidamente, senza lasciarsi sfiorare dal sospetto che è la strattonata, maleodorante quotidianità per migliaia di noi, vecchi e nuovi romani), le porte di casa lasciate aperte, le scarpe sfilate come prima cosa, la difficoltà di fidarsi degli altri, gli stranieri di seconda generazione che parlano romanaccio peggio di noi, i laureati bengalesi fruttaroli. Insistono: il disagio delle piazze che non sono non più piazze, la monnezza che io lì ci giocavo da ragazzina e mo’ le siringhe, le rose che combattono contro il disdoro, e periscono, le rose, ahi, fatalmente. Tutto diviso fra sorriso e lacrima, anzi lacrimuccia, un socchiudere gli occhi ora per delizia al profumo di cannella ora per il tremito appena accennato di un turbamento epidermico, da soffocare nel caldo di un bel maglione a collo alto. Comunque, un socchiuderli; tutto una coccola, un miele per lo spettatore galleggiante tra calde luci e canzoni che già conosce, un lettuccio famigliarmente cigolante. Una confezione crepitante e alla moda, carta-paglia, spago ruvido, tutto bello, al tatto alla vista bello, bello. Ma…

Quello a cui piace lamentarsi, invitato alle feste degli altri, forse è perché le invidia. A me non piace farlo, giuro, ma non posso che confessare la mia invidia per questa serenità che, rilasciata senza sforzo nel ferito quadrante di Roma Est, mi pare ingiustificabile. Non si chiede una micragnosa polemica sui disservizi, per carità, o sulla Raggi. Ma non posso che lamentarmi, se tutto l’enorme sforzo portato avanti da esperimenti sul medesimo discorso (casa, abitare, luoghi e non-luoghi, spazi, confini) come quelli, tanto per citarne fra i più strazianti, dell’”Uomo che cammina” di Dom- che ci trascina nel panorama postbellico del Porto fluviale, di Daria Deflorian sulle tracce di Antonio Pietrangeli o del folle laboratorio di “Roma non esiste” o, sia pure, per chi ha altri gusti, nell’algida ricostruzione borghese che sempre Sirna ha condotto con Elisa Pol, è qui decotto a edulcorata tisana per la buonanotte.
E non è solo una metafora: le ninnenanne, i caffè, gli amari, le caramelle (rigorosamente Rossana e Ambrosoli, come quelle di nonna) ci sono per davvero, girano per la platea, e mentre ci impastano la bocca aiutano lo spettatore ad affondare più pigramente nelle poltrone e a percuotere neghittosamente sullo stesso consunto tasto: il tentativo nostalgico e sottilmente manipolatorio di avvinghiarsi ad un’idea di casa, e dunque di vita, che, ahimé, è falsa.
Già, perché un lavoro analitico svolto con un simile comfort, senza travaglio e senza rigore (hai voglia a citare libri, se ne sono estratte solo frasi e non metodi, solo aforismi, magari punti d’arrivo meno essenziali del percorso) può esistere solo nella superficialità di uno sguardo edificante o nel calore tutto intimo del ricordo.

Nel ricordo, ecco, magari esiste nel ricordo, ma in un lacerto slabbrato del ricordo, confuso con la speranza. È una soluzione pacificante delle nostre menti spaesate, che si rimboccano le coperte sopra un profumato nido costruito a posteriori, basandosi su una sensazione (ah, le canzoni che ascoltavamo, i pigiami che indossavamo, l’amore che si è fatto), ma che non ha la potenza di un segno simbolico, sintetico in senso proustiano.
Con un materiale così si può fare – eccome – una riuscita trasmissione televisiva sulla nostalgia, di quelle che portano sui giornali il miracolo della prima serata di Raidue che sfonda, ma non si può costituire una proposta con cui leggere la quotidianità contemporanea delle grandi città, di Roma, senza luce, abbattuta e pronta a perdere il controllo, la decenza, a sanguinare. Nemmeno le lasagne offerte nel finale, che pure mi hanno fatto vacillare, hanno saputo convincermi del contrario.

16,9 Km. Home Concert
Un progetto di Bartolini/Baronio
In collaborazione con Elena Bellantoni, John Cascone, Raffaele Fiorella
Regia e voci: Tamara Bartolini / Michele Baronio
Drammaturgia: Tamara Bartolini
Paesaggio sonoro e canzoni: Michele Baronio, Renato Ciunfrini, Sebastiano Forte, Fabrizio Spera
con la partecipazione del Coro Quintaumentata e di alcuni abitanti della città di Roma e provincia
Immagini e regia video: Raffaele Fiorella
Disegno luci: Gianni Staropoli
Direttore del suono: Paolo Panella
Identità visiva, collaborazione al progetto e organizzazione: Margherita Masè
Produzione: Bartolini/Baronio, 369gradi
Coproduzione: Romaeuropa Festival, Teatro Biblioteca Quarticciolo in collaborazione con Palazzo delle Esposizioni e “LIVE MUSEUM, LIVE CHANGE”, progetto di PAV, ECCOM, Melting Pro e Visiva Lab, Vincitore del bando POR FESR Atelier Arte Bellezza Cultura (ABC) – Mercati di Traiano della Regione Lazio
Con il sostegno di: Angelo Mai, Carrozzerie n.o.t
Partner culturale: Wunderbar Cultural Project

Visto a Roma, Teatro Biblioteca Quarticciolo, il 27 ottobre 2019
Prima nazionale

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