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Il teatro necessario del Belarus Free Theatre

A Flower for Pina Baush
A Flower for Pina Baush
A Flower for Pina Baush
Mi viene da ridere quando sento parlare di “teatro necessario”, di “urgenza” di questo o quell’atto teatrale. Noi occidentali, da tempo abbrutiti da variegate forme di capitalismo avanzato ora in profonda crisi, economica e culturale, rivendichiamo spesso la necessità dell’arte come qualcosa che riempie la bocca di loschi intellettuali che hanno perso ogni contatto con le masse e con (l’ormai quasi estinta) classe operaia, riuscendo solo a scriversi addosso quando non impegnati a frequentare élite culturali con le tasche piene, frutto delle loro tramandate case di proprietà.

Anche la mancanza di libertà, imputata ai numerosi governi dell’orrendo Silvio, non è poi così lontana dalla mancanza di opportunità di affermarsi artisticamente e professionalmente in un sistema culturale da sempre in Italia egemonia della sinistra.

La necessità sta altrove, nei bisogni primari oggi negati come ai tempi del Medioevo, nella perdita delle certezze quotidiane dei piccoli imprenditori, nelle tasse che portano al suicidio, nell’urgenza – appunto – di arrivare a fine mese.
Il teatro – ah! il teatro – non salverà l’Italia, questo è certo, anche e soprattutto perché chi lo amministra a vari livelli, ovvero chi ha dei budget pubblici da spendere per programmare, esercita logiche di dubbia limpidezza e di basso profilo.

Non è sempre così, per fortuna, ma in molti casi lo è, e nessuno mi potrà contraddire. Come mi capita sempre più spesso di sottolineare nelle chiacchiere da foyer con colleghi inorriditi dai comportamenti dei rispettivi capi e direttori.

Poi accade che a Roma, grazie allo sforzo dello Stabile capitolino e dell’associazione Cadmo in collaborazione con l’Accademia d’Arte drammatica Silvio d’Amico, arriva il Belarus Free Theatre, per la seconda volta dopo la fugace apparizione di due anni fa con “Zone of Silence“, e questa volta con un progetto più articolato: tre spettacoli, una mostra fotografica, un laboratorio e un incontro col pubblico cui ha partecipato addirittura Tom Stoppard.

Anche Stoppard, a Roma per il suo “The Coast of Utopia” con la regia di Marco Tullio Giordana, è uno dei tanti sostenitori di questa compagnia nata a Minsk, in Bielorussia, in quella che viene definita come “l’ultima dittatura europea”, e che vive costretta in clandestinità a causa della sua arte scomoda e diretta. Una parte della compagnia è costretta a Londra senza la possibilità di tornare in patria. E le prove degli spettacoli si fanno anche via skype.
Ci sarebbe molto da dire su una compagnia che ha subìto arresti ed è costretta, in patria, a fare spettacoli clandestini con convocazioni segrete tramite sms. E’ quanto accade in Bielorussia a chi cerca di fare un teatro senza censura e senza imposizioni.
Gli spettacoli parlano per loro. E loro hanno un disperato bisogno di essere ascoltati.

Klp aveva già visto nel 2009, al festival Vie di Modena, “Being Harold Pinter“; abbiamo quindi assistito stavolta a “Generation Jeans” e, in prima nazionale, “A flower for Pina Bausch”.
Il primo spettacolo è un monologo scritto, diretto e interpretato da Nikolai Khalezin, uno dei fondatori della compagnia. Su un tappeto sonoro vintage (mixato live da un dj in fondo alla scena) si ripercorrono gli ultimi 30/40 anni di storia di uno qualsiasi degli stati dell’ex blocco sovietico.
I jeans sono un simbolo di libertà, insieme alla musica rock e ai vinili, il sogno americano, che mentre da noi iniziava ad essere demonizzato, nei paesi dell’est rappresentava un esempio da seguire, un idea da realizzare.
La storia ripercorre la vita del protagonista da un’adolescenza con i jeans orgogliosamente indossati all’impegno politico, alla lotta per la libertà e per l’arte, fino alla repressione, all’arresto e alla tortura.

Una storia come ce ne saranno state a centinaia. Una storia che celebra, tra le altre cose, la figura di Jan Palach, giovane studente bruciatosi in piazza a Praga per protestare contro i carri armati russi, simbolo di libertà ed eroe della destra sociale, per questo sconosciuto ai più.
Ecco allora un teatro della libertà, un teatro documento prezioso seppur nella difficilissima lingua russa. Un teatro che ha coraggio. Un teatro, stavolta si può dire, necessario.

Di tutt’altro genere il secondo lavoro presentato.
Quel fiore per Pina Bausch si svela all’inizio su un tavolo, prima che il giovane attore compia uno scatto danzato isterico. Diventa un simbolo, il fiore, di tenerezza verso una generazione di opportunità mancate, di sogni rubati, di amori affogati nella violenza e nell’alcolismo.

Anche in questo spettacolo, ma con minore forza rispetto al primo, affiora la situazione drammatica, questa volta prettamente bielorussa, di una generazione che nel regime ha trovato la crisi dei suoi valori. Rapporti malati tra figlio e genitore, tra partner in crisi, figli scappati e figli mancati sono gli argomenti degli sketch, interpretati dai giovani attori e frutto di quel “docu-teatro” per cui la compagnia lavora da anni, mettendo in scena la realtà, informando spettatori attoniti davanti alla verità.
In queste storie di desolazione, di donne tradite e umiliate, di uomini maneschi e ubriaconi, si raggiunge l’estasi nel finale, quando i due innamorati faranno un bagno nella cioccolata al latte per risvegliare le loro pulsazioni e desideri, ma anche per ammaliare e strizzare l’occhio a un pubblico di cui questo teatro necessario ha dannatamente bisogno.

Nonostante le dichiarazioni d’intenti (“Non sono interessata a come la gente si muove, ma a cosa la faccia muovere” si legge nella citazione di Pina Bausch dal programma di sala) resta il dubbio sul legame con la famosa coreografa tedesca per uno spettacolo che manca di particolari azioni coreografiche.
Viene da pensare a una legittima operazione di marketing per cercare di attirare l’attenzione su un pubblico occidentale troppo spesso poco curioso. Inserire Pina Bausch nel titolo dello spettacolo, come per un blog accalappiarsi una buona indicizzazione da Google, può avere un senso per chi ha un disperato bisogno di visibilità e attenzione internazionali.

Nel futuro del Belarus Free Theatre, fra i mille progetti e le mille difficoltà, ci sarà la messa in scena di un King Lear – il loro primo approccio con un classico – per i prossimi Giochi Olimpici di Londra, ma annunciano anche un progetto in Italia, “stimolati” dai nostri politici e dai nostri governi. Non credo sia un buon segno!

Generation Jeans
scritto da Nikolai Khalezin in collaborazione con Natalia Kolyada
regia, coreografia e interpretazione: Nikolai Khalezin
live musical fusion DJ: Laurel (Laur Biarzhanin)
assistenti alla regia: Svetlana Sugako, Nadezhda Brodskaya
stage manager: Siarhei Kvachonak
durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 3′ 12”

Visto a Roma, Teatro India, il 12 aprile 2012

A flower for Pina Bausch
regia, concetto e adattamento: Vladimir Shcherban
con: Pavel Radak-Haradnitski, Yana Rusakevich, Aleh Sidorchyk, Hanna Slatvinskaya, Dzianis Tarasenka, Maryna Yurevich
Yuliya Shauchuk, Viktoryia Biran
assistenti regia: Svetlana Sugako, Nadia Brodskaya
atage managers: Siarhei Kvachonak, Aliaksei Naranovich
produttori: Natalia Kaliada, Nicolai Khalezin
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 4′ 03″

Visto a Roma, Teatro India, il 14 aprile 2012
Prima nazionale – in esclusiva per l’Italia

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