Ne “La cantatrice calva”, prima opera teatrale di Ionesco, datata 1950, due coppie di perfetti borghesi inglesi, gli impassibili Smith e i loro amici Martin, che pur essendo sposati da diversi anni faticano a riconoscersi, si ritrovano insieme a celebrare, forse, il rito del tè, con una cameriera che si crede Sherlock Holmes e un pompiere stralunato. Vivono di frasi fatte, di piccoli silenzi, di non sense, di riti sociali che ne palesano la vuotezza esistenziale e la consistenza di una vita, improntata alla loro unica sopravvivenza.
Quasi settant’anni dopo, Armando Pirozzi e Massimiliano Civica, dopo il successo di “Un quaderno per l’inverno”, con “Belve”, presentato in prima assoluta al Metastasio di Prato, ci mostrano – attraverso lo stesso meccanismo surreale che, passati gli anni, si imbeve delle regole della farsa – come quella borghesia non sia affatto cambiata, ma abbia anzi affilato le armi in modo diabolico, costruendo un mondo in cui solo i soldi e la sopraffazione contano e hanno senso.
Anche qui due coppie: la prima composta da Pippo e Betta, si vede costretta ad accogliere, per l’ennesima volta, la seconda, che abita al piano di sopra, formata da Giorgetta e Giocondo, quest’ultimo manager efficientissimo che ha preso di mira l’azienda per cui il povero Pippo ha tanto lottato.
Il primo tentativo di Pippo per far fuori il vicino con il veleno per topi è fallito; adesso è necessario trovare una soluzione più drastica e definitiva. Per cui, quale migliore occasione può esserci di un invito a cena?
Betta, da buona padrona di casa, ha imbandito una bella tavola, nascondendovi sotto tutto quello che può nuocere all’ordine della casa e, per farsi forza, beve ogni tanto del vino, mentre per cena ha preparato delle cozze, pare buonissime. Ma noi non ne siamo poi così tanto sicuri.
Giorgetta e Giocondo tardano, preceduti da un vescovo inopportuno e dal suo chierichetto. Ma quando finalmente arrivano, è allora che inizia una sottile lotta di soperchieria, in cui vincitori e vinti si avvicendano ad ogni istante, scambiandosi pallottole che non risolvono nulla, in un folle gioco di sopravvivenza, dove ogni cosa tende sempre a rivelarsi molto diversa da ciò che in effetti è.
Della partita, che potrebbe essere mortale, saranno parte integrante anche un killer prezzolato, una coppia di improbabili sbirri e una figlia con un fidanzato rapper che ha venduto 30 dischi, di cui 29 ai suoi genitori.
Sono belve, che non possono che essere imparentate fra loro se, con apparente happy end, come in ogni farsa che si rispetti, si scoprirà il vero legame che lega i protagonisti, a sottolineare come il potere tende sempre a perpetuarsi.
Perché scegliere la tradizione della farsa per confrontarsi con il presente? “Per Cecchi e De Berardinis ritornare alla farsa significava anche compiere un gesto insieme anti-accademico e contro-avanguardistico: era il desiderio di seppellire, sotto la voglia di “ridere, ridere, ridere”, il testocentrismo acritico e il birignao del teatro di prosa assieme a quell’épater le bourgeois che era, a volte, l’altrettanto acritica poetica d’ordine di certo teatro di ricerca – scrive Civica nelle note di regia – Verso la farsa mi ha spinto dunque il desiderio di inserirmi in una tradizione vitale, per compiere un confronto che fosse anche un apprendistato artistico”.
Il primo confronto-apprendistato con la farsa è stato sul piano della drammaturgia: Civica ha chiesto a Pirozzi di provare a scrivere una farsa moderna, “impresa non facile, visto che in Italia, a differenza che in Francia, manca quasi totalmente la tradizione di una farsa in lingua, che non sia cioè scritta in dialetto e interpretata da attori dialettali – prosegue Civica – Vogliamo immettere nelle regole compositive e nella griglia strutturale del genere – il girotondo degli ingressi e delle uscite dei protagonisti, la trama fantasiosa, i colpi di scena e l’immancabile agnizione finale – temi e personaggi che siano vivi e “parlanti” per gli spettatori di oggi”.
Pirozzi realizza, come enunciato negli intenti, una farsa, ma del tutto particolare, che non evoca nessun riso sguaiato, semmai un sorriso sornione che ha nel paradosso e nel ribaltamento del senso la chiave per denudare una realtà i cui terribili meccanismi il tempo non è riuscito a scalfire.
Massimiliano Civica asseconda il gioco teatrale del suo autore elaborando uno stile asciutto, preciso nella sua astratta definizione, accompagnando in modo encomiabile tutti gli attori in ruoli e accenti, totalmente diversi da quelli per i quali ci avevano abituato.
Il secondo confronto-apprendistato con la farsa è stato infatti sul piano dell’arte dell’attore: “La farsa richiede una tecnica recitativa basata su ritmi di dizione, tempi comici, atteggiamenti fisici, scatti mimici, capacità di “intonarsi” sulle reazioni del pubblico che solo un attore-artista è in grado di padroneggiare – prosegue Civica – Per questo abbiamo scelto un gruppo di attori che potessero, insieme a noi, riscoprire e reinventare un bagaglio di tecniche adatte a questo genere”.
La scommessa dello spettacolo era anche mescolare attori provenienti da esperienze molto diverse, mettendoli insieme per una nuova avventura teatrale. E Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato e Aldo Ottobrino si sono lasciati volentieri accompagnare in questa curiosa e divertente avventura con esiti felici.
BELVE una farsa
di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
costumi di Daniela Salernitano
luci di Roberto Innocenti
con Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato, Aldo Ottobrino
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello
durata: 1 h 10′
Visto a Prato, Teatro Metastasio, il 21 aprile 2018
Prima assoluta