Biancofango, o dell’imperfezione del dirsi: Io non ho mani che mi accarezzino il viso

Photo © Andrea Trapani
Photo © Andrea Trapani

“Etero-autobiografia”. Chi l’avrebbe detto che si sarebbe dovuti arrivare a ipotizzare un’espressione monstre del genere?
Eppure per distinguere lo sguardo dell’appena visto “Tu” di Olivier Meyrou da quello di “Io non ho mani che mi accarezzino il viso” di Biancofango, entrambi andati in scena nell’ambito di Romaeuropa, non trovo di meglio.
Perché anche loro – gli attori Aida Talliente e Andrea Trapani – parlano di sé e della propria interiorità, ma per farlo usano un personaggio della letteratura teatrale: la Santa Giovanna dei Macelli di Brecht e il povero Woyzeck di Büchner, personaggi a cui più sentono di assomigliare, quasi come chiave d’ingresso e lingua d’espressione.
Si tratta quindi di autobiografia mediata, che non ha a che vedere brutalmente con i fatti della loro vita, ma con il rapporto tra essi. Autobiografia per interposto personaggio, si potrebbe dire – un’operazione novecentesca.

La scena è nera, un pianoforte verticale sul fondo, occasionalmente strimpellato da Trapani; al centro una linea di tavoli, anch’essi neri, su cui sta una postazione audio per la produzione live di effetti, affidata alla Talliente. Sulla destra, tutto a vista come il Teatro India invita a fare, c’è una batteria di proiettori agli ioduri affiancata a uno specchio montato a un braccio rotante. Sull’americana di mezzo tre neon e un altro tubo sul fondo, sopra un pannello nero, centrale.

Lo spettacolo – dal 21 novembre al 3 dicembre al teatro Elfo Puccini di Milano – si dipana come una sorta di dialogo fra i due personaggi, Giovanna e Woyzeck, la cui libertà di dirsi è arginata solamente dalla presenza dell’altro. Entrambi di volta in volta sbugiardati, messi in ridicolo, in crisi dall’interlocutore, oppure lasciati liberi, faccia al pubblico, di citare, rielaborare, fuggire dalla trama dei rispettivi testi.

La diversità, la ricerca della vicinanza con gli altri e di un senso di comunanza, la bellezza dell’esistente “qui e ora”, Dio, la propria animalità insopprimibile e scomoda: questi sono i temi.

Gli strumenti: una recitazione tutta rivolta al pubblico, volutamente “fuori”, fatta per comunicare immediatamente, che si avvale ora di cadenze ripetute, ora di ampi scarti di registro; le note del pianoforte su un tema semplice; un lavoro di adattamento del testo che opera per estrazione di lacerti (più di contenuto che letterali) e successiva rielaborazione, riadattamento alle necessità del dialogo e dello scontro; effetti audio/luce aggressivi, elemento non secondario né puramente “tecnico” nel lavoro.

Il testo ne risulta non coeso, ma coerente negli scopi: doveva essere chiaro agli autori il contenuto, il punto emotivo a cui mirare, se non altro nei “finalini” che chiudono sempre su una corda vibrante e ben tesa le sezioni del lavoro. Un po’ meno lineare è l’arco di costruzione, la cui informalità suona al limite dell’aforistico. Così anche la disposizione degli equilibri scenici risulta (volutamente?) imperfetta, e si espone talvolta in momenti di ricercato pathos visivo, come la scena finale della nevicata sulla ribalta, che copre un’estatica Talliente, ad altri meno fluidi, in cui il centro si perde, e la scena è in bonaccia, priva di appigli.
Una suggestione, un’ipotesi, magari tirata per i capelli: si accennava alla prepotenza quasi brutale degli effetti-luce. Sembra quasi che essi facciano da ponte ideale tra la progettazione degli elementi strutturali (che si è detta squilibrata) e un punto centrale nell’ambito del contenuto (e qui, in un’opera incoesa, è possibile fare questa divisione, anzi essa si pone da sé). Questo punto centrale potrebbe essere “l’esserci in parte”, l’essere mal riusciti, l’essere fuori della norma, perlopiù verso il basso, l’essere alla ricerca di qualcos’altro (perlopiù verso l’alto) che, chi più chi meno, Giovanna e Woyzeck esprimono…

Le luci che sfuggono a un comando netto potrebbero sembrare a tratti immagine di questi slittamenti, reificazione tecnica di un contenuto?
Le lampade agli ioduri metallici, ferocemente abbaglianti, hanno un’accensione imprecisa e traballante, e una volta innescate passano per una suggestiva modulazione cromatica prima di raggiungere la stabilità. Così i tubi a incandescenza e i neon, faticosamente dimmerabili, scoprono in fase di accensione sfarfallamenti e imprevedibili fluttuazioni di intensità e colore. E ancora, lo specchio rotante che riflette per palco e platea un raggio di proiettore, a mo’ di faro costiero, acceca lo spettatore, lo costringe a chiudere gli occhi a intervalli, o a schermarsi con la mano, tagliuzzando così la scena in frammenti diseguali per intensità, contenuto, e persino durata.
Chissà insomma che tutto ciò non sia una declinazione della disobbediente nozione del “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, più realistica di una conclusiva autodefinizione del sé… Sprofondati, un’altra volta, in pieno Novecento.
O no?

Io non ho mani che mi accarezzino il viso
Drammaturgia Francesca Macrì, Andrea Trapani
Regia Francesca Macrì
Con Aida Talliente, Andrea Trapani
Collaborazione al progetto Aida Talliente
Costruzione delle scene Teatro della Tosse
Luci Gianni Staropoli
Suono Umberto Fiore
Direzione tecnica Massimiliano Chinelli
Produzione Teatro dell’Elfo, Fattore K, Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse
In collaborazione con Armunia, La Città del Teatro di Cascina, La Corte Ospitale, Cie Twain Residenze, Teatri di Vetro
Foto © Andrea Trapani

durata: 65’
applausi del pubblico: 2’ 30’’

Visto a Roma, Teatro India, il 1° novembre 2017

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