Sono sembrati per lo più spettacoli di poco futuro, quelli visti quest’anno durante la decima edizione della Biennale Danza di Venezia. Destinati, a parte alcuni casi, ad un apatico consumo e a una rapida estinzione piuttosto che a favorire un’apertura nel cuore e nella mente degli spettatori.
La danza, come esperienza compositiva per chi la fa ed empatica per chi la riceve, ha pagato il prezzo di idee sviluppate in quanto idee, non in grado di raggiungere una forma efficace. E’ il caso di Camilla Monga e del suo quartetto di danzatori alle prese con l’utilizzo coreografato di «13 Objects» d’uso quotidiano (un cuscino, un mattarello, uno sturalavandini, una palla…), banalmente arrangiato al ritmo di percussioni suonate dal vivo; o dell’asettico «Duetto nero» di Marina Giovannini e della giovanissima Vanessa Geniali, concentrate nella rigorosità del movimento speculare ma prive di qualsiasi espressività.
Anche l’ossessivo studio del movimento è sembrato a volte troppo estetizzante, come nel silenziosissimo «La Ronde-Quatuor» di Yasmine Hugonnet, che a parte il suggestivo intreccio corale, poco altro ha trasmesso; o in «Ra-me» di Lara Russo, estremamente affascinante per le geometrie, la luce e le sonorità ricreate attraverso la roteazione, combinazione e oscillazione di lunghe aste di rame da parte dei tre performer; ma anche qui, dismessi gli oggetti scenici, la coreografia si è ripiegata su sé stessa, perdendo intensità.
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In altri casi, invece, il voler mettere in scena sé ha preso il sopravvento sul progetto coreografico, come è sembrato in «Back Pack» di Francesca Foscarini, che ha quasi tralasciato del tutto la sua bella energia danzante per portare letteralmente sul palco (con senso metaforico) il contenuto del suo zaino da viaggio, in una performance che troppo rubava al già visto e rivisto teatro-clownerie.
Discorsi analoghi anche per Gabriel Schenker, che ha dato prova della sua fisicità in «Pulse Constellations», o Adriana Boriello nel suo raffinato e contemplativo «Col corpo capisco#2», dove è sembrata essersi completamente dimenticata dell’esistenza di un pubblico in sala.
A risvegliare gli animi assopiti degli spettatori ci hanno pensato le dinamiche sovrapposizioni di Daniel Linehan e Thomas Hauert, e in parte il duetto di Albert Quesada.
Linehan ci ha catapultati, con il folle «dbddbb», nel caos di suggestioni ironiche, sognanti e a volte strampalate, nella vivacità di un nonsense danzante e vocale, attraente e disorientante allo stesso tempo. «Inaudible» di Hauert ha giocato invece con un collage di interpretazioni indipendenti e interdipendenti, orchestrando improvvisazioni e codici espressivi sulla musica di Gerswhin e di Mauro Lanza, fino ad arrivare all’esasperazione delle possibilità interpretative del corpo.
Mentre in “OneTwoThreeOneTwo» di Quesada sono stati smontati e riassemblati alcuni degli elementi peculiari del flamenco, in una danza maschile a tratti ironica, conturbante, onirica e poetica.
Sono arrivati invece come emozionanti contrappunti alcuni degli esiti dei percorsi della Biennale College, l’altra faccia del festival dedicata alla formazione e alla trasmissione, che hanno coinvolto, oltre ai danzatori, semplici cittadini di diverse età.
E’ stato l’entusiasmo di entrambi a colorare e riscaldare, ancora una volta, il clima di questa edizione. Li abbiamo visti correre dopo le prove per prendere parte, stanchi e sudati sotto il sole, agli esiti dei colleghi, vociferare in gruppo pieni di ammirazione o disorientati per qualche perplessità, e ancora lasciarsi scivolare silenziosamente assopiti sulle poltroncine dei teatri, per poi improvvisamente esultare con fragorosi applausi agli spettacoli dei rispettivi Maestri, oppure raccogliere i propri (di applausi) con incredulità e grande commozione.
Il connubio tra professionisti e amatori, pur non essendo una novità nella pratica del direttore artistico Virgilio Sieni, e nemmeno nella storia della danza, è stato sicuramente tra gli aspetti più vivificanti e commoventi di questi ultimi quattro anni di Biennale.
Dice bene Sieni quando, riferendosi agli amatori, parla di incanto. Un incanto dato “da incrinature, debolezze e difetti, da un arcipelago di dismorfie e dall’assenza di codici”, ma anche dall’entusiasmo di ogni singolo gesto, corsa, salto e caduta, e ancora dal fiato corto e da quella rumorosità che rende partecipi di un vissuto e di un’altra bellezza danzante.
Come è avvenuto in particolare durante l’esito finale di «Levée des conflits» di Boris Charmatz, ripreso da Olivia Grandville e Magali Caillet-Gajan, che assieme a danzatori e amatori hanno dato vita ad una sferzante amalgama di gioia, frustrazione e dolore, senza mai dimenticarsi di vivere pienamente lo spazio (la bellissima Sala della Colonne di Ca’ Giustinian): hanno così restituito sia la bellezza dell’insieme, sia quella della diversità del singolo.
O come nel caso di «Abbastanza spazio per la più tenera delle attenzioni», nato all’interno del più ampio Progetto Archeology curato da Elisabetta Consonni (coreografa), Cristina Pancini (artista-diarista), Adriano Cancellieri (sociologo) e Andrea Montesi (architetto), che insieme hanno indagato un tratto della città e l’hanno restituito sottoforma di un percorso in movimento dal carattere giocoso. Gli amatori, mettendo prima di tutto in gioco sé stessi, hanno disegnato le architetture, i confini, le traiettorie, gli ostacoli della bella Venezia, e con i loro movimenti, le pause, gli intrecci, le alternanze hanno invitato alla scoperta e ad una fanciullesca interazione.
Di altro respiro «Danze sulla debolezza» realizzato dallo stesso Sieni, con la collaborazione del musicista Michele Rabbia, percorso che ha coinvolto nove danzatori e ben 14 amatori. Difficile rintracciare qualche aspetto di debolezza in ciò che è stato presentato: la voracità dei danzatori, e l’impronta stilistica fin troppo vista e riconoscibile, ha messo a dura prova gli amatori, facendoli arrancare e perdere, purtroppo, la loro innata credibilità.
Anche il progetto Agorà/Aperto_campi veneziani – altra pratica consolidata in questi anni – ha regalato dei bei respiri durante i dieci giorni di Biennale. La danza all’aperto, che tanto deve all’antica usanza del teatro veneziano in campo, ha dialogato in armonia con il pubblico di passaggio, la luce del giorno e del tramonto, il brusio e il silenzio.
Ne sono nate continue polifonie, un tempo nel tempo, uno spazio nello spazio: il virtuosismo e la banalità del gesto di «My walking is My Dancing» di Sandy Williams, ma anche il corpo come artefice di uno spazio creativo e temporaneo, e il corpo cittadino con il suo incessante attraversare uno spazio conosciuto e permanente, in «Venice» di Emanuel Gat.
Per l’invidiabile freschezza coreografica, la pienezza compositiva, ma anche per uno stupefacente lavoro sul corpo e sulla fisicità, e per quel continuo dialogo con la gravità che permette di dimorare nel tempo, sono stati una bella sorpresa i quattro lavori della Trisha Brown Dance Company: «Planes» (1968), «Opal Loop» (1980), «Locus» (1975) e «For M.G.: The Movie» (1991), che in un’unica serata hanno ripercorso le varie fasi dei 50 anni di carriera della regina della danza verticale, coreografa e artista chiave nell’evoluzione della danza contemporanea, l’ormai ottantenne Trisha Brown. Un momento di storia della danza che si è accompagnato a quello dedicato al Leone d’Oro 2016 Maguy Marin, di cui già vi abbiamo raccontato.
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Ancor più sorprendente è stata Anne Teresa De Keersmaeker (Leone d’Oro 2015) che ha impressionato la memoria del pubblico con «Vortex Temporum», titolo omonimo del capolavoro musicale di Gérard Grisey, da cui prende vita la scrittura coreografica. Una scrittura che è il continuum di uno studio chirurgico e matematico sul movimento come materia prima, e sulle sue infinite possibilità di interazione con le proprietà acustiche del suono, come già avevamo potuto osservare lo scorso anno in «Fase, four movements to the music of Steve Reich».
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Ritornano anche in questo caso le linee rette, le rotazioni, i cerchi, le reiterazioni. L’impasto di suoni e movimenti indipendenti tra loro, ma che seguono un ordine interno, e le ipnotiche reiterazioni danno vita ad un contrappunto danzato irrazionale, dalle possibilità illimitate, e per questo trascendente. Come una costante matematica che regola l’universo… (Non sono le prime cifre del Pi greco quelle urlate dai danzatori?, ha fatto notare un attento spettatore).
Una complessità formale, quella della De Keersmaeker, magari non così facilmente approcciabile dal pubblico, che ha però dato prova di un’impeccabile abilità compositiva e scenica, e della ricerca articolata e sopraffine di un’evoluta pensatrice.