In più di qualche occasione, durante l’11^ edizione della Biennale Danza di Venezia appena conclusasi, abbiamo sentito ricordare quello con cui Merce Cunningham, mentre si stava allontanando dalla vita, si trovò a fare i conti: “La danza é la più fragile delle arti”.
“Dance gives you nothing back, no manuscripts to store away, no paintings to show on walls and maybe hang in museum, no poems to be printed and sold, nothing but that single fleeting moment when you feel alive”. Con queste parole Cunningham metteva in luce la fragile trasmissibilità tersicorea.
A differenza infatti di teatro e musica, l’arte coreutica non ha un supporto scritto, e nonostante gli appunti di lavoro del coreografo (ma anche le famose notazioni di Laban rimangono un codice arcano), e l’aiuto del mezzo video, che certamente svolge un’importante funzione archivistica, la danza è trasmessa da danzatore a danzatore, da “corpo a corpo”, come erano le arti nelle culture antiche.
Ecco perché sono occasioni da non perdere appuntamenti come quello della Biennale Danza (ma ci sono anche altri di esempi in zona, da OperaEstate Festival di prossima partenza, al risveglio coreutico delle stagioni dello Stabile del Veneto, alle consolidate stagioni di Vicenza, Verona, Mestre, fino alle piccole rassegne di provincia); la Biennale, in particolare, con il suo College, da quest’anno arricchitosi anche di un percorso trimestrale per soli coreografi, di incontri/conversazioni con gli artisti pre e post spettacolo (altra bella novità per il settore danza), e gli spettacoli per il pubblico, in particolare di coloro che sono le figure imprescindibili per la storia della danza, punti di congiunzione tra creazione rinnovamento e trasmissione, sono importanti opportunità per il pubblico tutto, e non solo per gli addetti ai lavori.
Pensiamo ad esempio agli spettacoli di Lucinda Childs, Leone d’Oro 2017, Maguy Marin, Anne Therese de Keersmaeker, Trisha Brown, solo per citare i più recenti, di fronte ai quali si riesce ad avere certezza di ciò che la neo-direttrice Marie Chouinard intende quando dice di voler fare “non un festival ma una mostra d’arte”, alimentandone il desiderio.
Della necessaria trasmissione da corpo a corpo (e non a caso i 15 danzatori del College hanno lavorato con gli ex danzatori di William Forsyth, a garanzia della trasmissione da maestro ad allievo) ne ha parlato anche il Leone d’Oro di quest’anno, Lucinda Childs, che con la sua raffinata eleganza e bellezza – d’altra parte la chiamano “la dama della danza” – ha raccontato di aver posto il divieto assoluto a ogni ballerino della nuova compagnia (quella storica del ’73 l’ha sciolta nel 2000) di guardare e cercare di imparare la coreografia di “Dance”, il suo storico capolavoro, attraverso il video.
“Ogni ballerino impara i passi direttamente da me, voglio che ognuno di loro trovi la propria presenza e la propria relazione con la musica. E’ un processo, e un lavoro che richiede molta preparazione. E’ importante che imparino la mia storyboard e che poi trovino la loro strada da soli”.
Proprio “Dance” ha aperto il “First Chapter” della nuova direzione artistica, quel che si dice un classico della storia della danza che vince sul tempo. Più volgarmente si potrebbe dichiararlo uno spettacolo datato, nato sul finire degli anni ’70 dal sodalizio artistico tra la Childs, Philip Glass e Sol LeWitt, un esemplare dialogo tra danza, musica e immagini video: “Avevamo fiducia reciproca, e non avevamo paura delle diversità”.
La sublime raffinatezza minimalista di “Dance” risponde a una grammatica precisa, antiespressiva, antiemozionale, che pone l’enfasi sulla fisicità oggettiva dell’opera.
La perfezione matematica – che ricorda molto quella dei lavori della De Keersmaeker – anche qui ha la sua cellula in movimenti basici semplici – saltelli, giri, diagonali – che via via attraverso l’arte della ripetizione – senza perdere quella dell’imprevedibilità – diventano impercettibilmente delle variazioni sempre più complesse, sia dal punto di vista fisico che mentale, data anche la presenza ipnotica della musica di Glass.
E tuttavia quel che arriva e rimane è una vitalità leggera e pura, come il bianco di cui sono vestiti i danzatori, voluto a suo tempo da LeWitt per poter dare alla scena i veri blu, gialli e rossi delle luci.
L’accostamento tra il video originale in bianco e nero e la coreografia danzata di oggi è molto curioso, perché lascia intravedere quel processo di trasformazione che gli stessi movimenti hanno subito nel tempo e con la consegna alla nuova compagnia. All’epoca, il pubblico poteva vedere gli stessi danzatori sia sul palco che nel film (da diverse angolazioni) perfettamente in sincrono.
Oggi le immagine filmate, rimaste le stesse, creano un contrappunto particolare, perché anche se i movimenti degli attuali danzatori sono gli stessi e sempre perfettamente in sincrono con quelli del filmato, le linee delle braccia, della testa, delle gambe, e gli stessi sguardi sono evidentemente diversi, ancor più asciutti, rigorosi, si potrebbe dire più minimalisti dell’originale, tanto da restituire paradossalmente un po’ di quella libertà espressiva abortita dai danzatori di allora.