La stretta vicinanza tra danza e arte visiva, una sperimentazione radicale, un approccio multidisciplinare, nuovi momenti di intimità e connessione tra performer e spettatore: sembrano queste le caratteristiche privilegiate dalla direzione artistica di Marie Chouinard alla Biennale Danza di Venezia di questa edizione.
Per la coreografa canadese la danza e le arti visive sono le “forze trascinanti” dell’arte contemporanea. «Essere un coreografo, per me, è molto vicino all’essere un artista visivo – afferma – Il coreografo fa il testo, fa la regia, fa la direzione delle luci e della scenografia. E questo lavoro totale si avvicina molto al lavoro dell’artista visivo. Negli ultimi cinquant’anni la danza e l’arte visiva sono state al passo l’una dell’altra».
In questa magmatica relazione tra danza e arte visiva, il danzatore è l’artista del corpo e dello spazio, è il punto di partenza, colui che con la propria trasfigurazione esprime la vitalità dell’opera d’arte. Da qui, forse, l’eccentrico titolo scelto per questa tredicesima edizione: “ON BEcOMING A SmArt God-dESS”.
Ecco perché i Leoni di questa edizione si inseriscono a pieno titolo lungo questo pensiero artistico. Sia Alessandro Sciarroni (Leone d’oro alla carriera) che il duo Théo Mercier e Steven Michel (Leone d’argento) sono considerati dei creativi, degli artisti di formazione “mista” che utilizzano piani di lavoro sovrapposti, “extraterritoriali” rispetto alle convenzioni della danza.
Abbiamo già avuto modo di parlare di “Augusto”, lo spettacolo corale presentato da Sciarroni; il lavoro di Mercier e Michel è invece un assolo complesso che si propone di interrogare la mercificazione delle nostre vite, la standardizzazione dei nostri spazi vitali, e l’illusione della libertà di scelta propagandata dalle maggiori potenze industriali.
“Affordable Solution for Better Living” è lo slogan a cui ci affidiamo. Ecco allora un omino qualunque alle prese col montare un Kallax, lo scaffale più venduto dall’Ikea, che diventa un totem da venerare. Eseguire le istruzioni, questo è il compito: mettere insieme i pezzi, meccanicamente; adattarsi all’arredamento, al replicabile, alla mediocrità dunque. Rivestire di finta pelle il nostro tessuto connettivo.
“Affordable Solution for Better Living” è il ritratto amaro dell’uomo contemporaneo che inconsapevolmente si è arreso alla standardizzazione del suo habitat, dei suoi comportamenti, fino ad arrivare a desideri ed emozioni. Un corto circuito ininterrotto, dove costruzione è sinonimo di distruzione. Una sorta di “Black mirror” coreografico, interpretato magistralmente da Steven Michel.
In questo “spazio caldo”, interdisciplinare, anche la relazione tra artista e spettatore si fa più vicina, se non addirittura intima, come nel caso di “Bunny” del coreografo australiano Luke George, anche interprete con Daniel Kok. Una performance ispirata al bondage e alla tradizione dello shibari, pratiche erotiche in grado di procurare piacere sia a chi lega che a chi viene legato, e a chi resta a solo a guardare. Qui vengono richiamate nel loro essere non solo una forma artistica di legatura con corde – in questo caso dai colori vivaci ed eccentrici – e nodi, ma anche una “danza partecipata”, un momento totale di condivisione e complicità, non privo di rischi, che comporta la scelta implicita di assumere un ruolo di potere e di subordinazione.
La pratica richiede quindi un rapporto di totale fiducia tra chi lega e chi viene legato (una dozzina di spettatori hanno rivestito entrambi i ruoli, solo una persona tra loro ha rifiutato di sottoporsi alla pratica), un legame dove in teoria la necessità di proteggersi dovrebbe crollare sotto la sensazione di paradossale libertà e piacere che lo shibari è in grado di provocare.
La relazione tra artista e spettatore pretende di essere addirittura metafisica nel caso di “Blink mini unison intense wail” della performer brasiliana Michelle Maura – in scena insieme a Clara Saito – la cui ricerca è rivolta a raggiungere attraverso il movimento quello stato di estasi o di esperienza mistica solitamente indotto da sostanze stupefacenti, di cui in passato ha fatto uso.
Qui il pubblico dovrebbe essere guidato in modo inconsapevole a scardinare le proprie abitudini percettive attraverso una forma di eteroipnosi scaturita da un lungo e continuo movimento fisico ondulatorio e ipnotico, e da un lamento addomesticato su cui poggia la voce, che gioca tra l’acuto e il grave. La scintilla da cui tutto dovrebbe scaturire è quel piccolo e quasi impercettibile atto riflesso e intermittente del batter di ciglia (da cui Blink) che prolunga la sua eco nel corpo, nella voce e nel respiro delle due performer in scena. Ma il cui esito rimane comunque incerto.
A stabilire una relazione con lo spettatore più spensierata e divertente ci hanno pensato invece Nicolàs Poggi e Luciano Rosso con “Un pojo rojo”. Uno spettacolo che racconta, tra gag e azioni clownesche, l’antefatto di una storia d’amore tra due uomini: il corteggiamento.
Poggi e Rosso si cercano e si respingono, fronteggiandosi a colpi di virilità e vanità, immersi in un completo silenzio. Combinano l’esibizione atletica con quella teatrale – la preparazione tecnica è di alto livello – come in uno dei più divertenti e acrobatici incontri di wrestling a cui ci aveva abituato la tv negli anni 80, con una vena piccante in più, che amplifica ulteriormente il carattere umoristico della pièce.
Nel finale l’utilizzo live di una radio – di cui i performer scorrono i canali, ignari di ciò che potrebbero trovare – è il coupe de théâtre: il giornale radio, una canzonetta, una preghiera trasmessa da Radio Maria, o anche solo il fruscio del cambio sequenza diventano all’improvviso una drammaturgia sonora che a tratti si cala alla perfezione nella storia, in altri crea bizzarre idiosincrasie.
Dall’incontro tra la danzatrice e coreografa islandese Bár Sigfúsdóttir e il compositore e trombettista norvegese Eivind Lønning è nata invece “Tide”. Una performance in cui il movimento e il suono vorrebbero essere uno l’onda del e per l’altro, per dare vita a un flusso delicato e continuo, ma che è apparsa essere ancora a uno stadio di “accordatura” e di puro “esercizio”; sia la partitura corporea che musicale sembrano tuttora in una fase di piena ricerca e osservazione reciproca, in attesa di un livello di sviluppo superiore.
Pensando anche solo all’ampia partecipazione e alle domande rivolte alla coreografa nel post spettacolo, “Every body electric” di Doris Uhlich è il progetto coreografico che sembra aver più spiazzato il pubblico.
Lo spettacolo è una sferzata di energia pura, vulcanica, catalizzatrice e catartica.
Al ritmo di musica elettronica e techno, come in uno dei migliori rave, otto performer si mettono sfacciatamente a nudo, offrendo al pubblico il piacere di essere guardati, osservati, ammirati. Nessun pudore. Hanno tutti delle disabilità e si muovono con l’ausilio di stampelle, sedie a rotelle o grandi macchine elettriche. I loro corpi vibrano incessantemente per quasi due ore di spettacolo. Sembrano inarrestabili. I supporti diventano oggetti coreografici da smontare e utilizzare a proprio piacimento, oppure una vera e propria estensione del movimento. Quanta possibilità c’è nel corpo, quanto coraggio e voglia di andare oltre i propri limiti!
«Ogni uomo è un danzatore» ci ricorda l’autrice e pedagoga austriaca. Lo spettacolo non parla di disabilità o abilità, ma di energia, di corpo archivio, di bellezza e di danza, e di come ogni forma nel mondo sia sinonimo di unicità.