Bolzano Danza 17 e i giovani artisti ‘liquidi’ in cerca di esempi

A Love Supreme (photo: Anne Van Aerschot)|Emanuele Masi e Shaaron Booth
A Love Supreme (photo: Anne Van Aerschot)|Emanuele Masi e Shaaron Booth

La nostra curiosità verso i linguaggi con cui si esprime la danza oggi ci ha portato per due giorni al festival Bolzano Danza, diretto da Emanuele Masi, che si è concluso proprio ieri nella città altoatesina, con una 33^ edizione fatta di 18 spettacoli, 29 rappresentazioni, di cui otto in prima nazionale e una prima assoluta, tra workshop e incontri con autori e critici.

Quattro gli spettacoli su cui focalizzaremo il nostro racconto.
“Three Times Rebel” è firmato da Marina Mascarell, coreografa spagnola residente in Olanda: quattro donne e un uomo (Nina Botkay, Maud de la Purification, Eli Cohen, Chen-Wei Lee e Filippo Domini), mossi dal vivo dalle musiche di Yamila Ríos, compongono una specie di manifesto danzato della lotta femminista per l’uguaglianza tra i generi.
Attraverso i corpi dei performer, che giocano tra di loro e con i propri corpi, ma anche attraverso semplici elementi componibili che rimandano al femminile, lo spettacolo analizza la strumentalizzazione da sempre attuata del corpo femminile, attraverso l’uso di stereotipi educativi che hanno portato la nostra società, ancora oggi assai maschilista, all’esclusione e alla violenza diretta nei confronti della donna.
A ciò concorre anche la musica “prepotente” eseguita dal vivo da Yamila Ríos, e la presenza dell’unico performer maschile, che si presta alla rappresentazione del gioco iconico delle immagini femminili e all’utilizzo del proprio volto in maschera per proporre l’assunto di questa bella creazione di Marina Mascarell.

Dopo aver ammirato l’anno scorso a MilanOltre la ripresa del capolavoro di Anne Teresa De Keersmaeker “Rosas danst Rosas”, a Bolzano abbiamo potuto gustare con estrema gioia anche “A Love Supreme”, creazione composta a quattro mani con Salva Sanchis: un altro dei suoi cavalli di battaglia, riproposto con quattro nuovi magnifici danzatori, José Paulo dos Santos, Bilal El Had, Jason Respilieux, Thomas Vantuycom.

“A Love Supreme” è un omaggio al jazz, e specificatamente a John Coltrane, di cui ricorrono i 50 anni dalla scomparsa.
Danza e musica si sposano magnificamente in un intreccio compositivo perfetto, tra coreografia scritta e danze improvvisate, secondo lo schema del jazz, “mantenendo però fermo il principio che non esista libertà nella libertà ma solo libertà nella struttura”. Ogni danzatore si impossessa, dialogando con la musica e con gli altri componenti della creazione, “fisicamente” di uno strumento – Thomas Vantuycom del sassofono, Bilal El Had del pianoforte, José Paulo Dos Santos della batteria, Jason Respilieux del basso – e lo consegna in modo potente al pubblico in un impatto coreografico di magnifico effetto.

Ci ha poco convinto invece “7xRien”, creazione di Olivier Dubois per Ballet du Nord/ Ccn Hauts-de France, con Christine Corday, Sophie Lèbre e Camerone Bida, dedicata ai ragazzi, per una coreografia che ruota attorno al tema dei sette vizi capitali.
In uno spazio ‘argentato’ che piano piano si forma, i tre performer propongono coreograficamente una sorta di esemplificazione dei vizi che attanagliano gli esseri umani. Ad una prima parte eccessivamente didascalica se ne contrappone un’altra più giocosa ed evocativa, in cui la carta argentata reinventa personaggi mitici e fiabeschi.
Tuttavia la nostra percezione è che lo spettacolo non trovi quasi mai (nonostante lo zucchero filato che fa improvvisa comparsa) una giusta dimensione evocativa in cui il pubblico infantile possa agevolmente rispecchiarsi.

Ci ha infine coinvolto e interessato “Ikea”, dove una danzatrice di sicuro talento come Annamaria Ajmone si confronta con il concept della consolidata coreografa Cristina Kristal Rizzo, che la “offre” sulle note di “Thursday Afternoon” di Brian Eno in un ragguardevole continuum temporale al nostro sguardo curioso, racchiusa in un cubo trasparente, dove anche il pubblico, uno spettatore alla volta, può entrare, osservandola da vicino.
“Il titolo Ikea evoca, giocando con l’immaginario casalingo più diffuso nel mondo, l’idea di un auto design del corpo, inteso però come spazio esotico, nel senso di straniero o non conosciuto”.
Bendata, Annamaria Ajmone condivide così da lontano e da vicino con lo sguardo dello spettatore uno spazio visivo ed immaginativo, in cui la danza, nella sua potenza e al medesimo tempo fragilità, è protagonista assoluta.

Emanuele Masi e Sharon Booth, alla direzione artistica del settore workhop
Emanuele Masi e Sharon Booth, alla direzione artistica del settore workhop

Abbiamo incontrato Emanuele Masi, direttore artistico del festival, per farci raccontare non solo le linee che lo hanno guidato nella composizione del programma di Bolzano Danza 2017, ma per offrirci il suo sguardo sulla situazione della danza in Italia e all’estero.

Quali linee di intervento hai scelto quest’anno per il festival?
Anche quest’anno Bolzano Danza è stato programmato su una doppia linea di azione: da un lato gli spettacoli al Teatro Comunale, che si confermano una vetrina sulla grande danza internazionale, dall’altro i progetti che spingono il festival nella città, in una sorta di azione centrifuga che si irradia nei vari quartieri coinvolgendo diverse realtà del territorio. Il tutto sotto l’ombrello del tema triennale dell’identità, che quest’anno si chiude con un focus sulle relazioni, i legami e le radici.

Anche per effetto di nuovi regolamenti per i bandi, la danza contemporanea è sempre più presente nelle programmazioni di stagioni e festival. A che punto siamo secondo te?
Sì, in modo spontaneo, ma con grande vitalità, la danza contemporanea sta penetrando i vari ambiti dello spettacolo dal vivo, e anche l’interesse del pubblico verso il linguaggio coreografico è crescente. Nonostante questo, credo che in Italia ci sia ancora molta strada da fare per dare alla danza una dignità e la rilevanza che merita, al pari di altre discipline: in questa direzione sono sicuramente importanti gli strumenti normativi e le iniziative dall’alto, ma serve soprattutto un cambio di passo nelle strategie di programmazione e comunicazione dei teatri.

Esiste un pubblico che segue specificatamente la danza contemporanea? Si può quantificare? Ne tieni conto nella tua programmazione?
Nonostante le autorevoli ricerche sul pubblico che diversi organismi hanno compiuto negli ultimi anni, il pubblico resiste a ogni forma di profilazione. Questo porta ormai noi programmatori a utilizzare abitualmente il plurale “pubblici” al posto di “pubblico”. Quindi anche il pubblico della danza contemporanea è in realtà composto da gruppi con interessi culturali trasversali ai generi: per questo nel mio lavoro mi impegno per presentare un programma che sia sì organico, ma al tempo stesso “ecumenico”, ossia capace di rispondere a istanze diverse, e presentare il mondo della coreografia nella sua interezza, dal balletto contemporaneo fino alla performance.

Secondo te si possono individuare percorsi coreografici che caratterizzano la danza italiana? E quali sono i coreografi stranieri che oggi la influenzano maggiormente?
E’ difficile rispondere a questa domanda, forse impossibile: la ricchezza e diversità dell’attuale panorama della danza italiana è il risultato di un mosaico di intrecci e relazioni che si dipanano senza soluzione di continuità. Abbiamo questa emozionante, fragile e preziosa nuova generazione di coreografi e coreografe che vive liquida tra l’Italia e l’Europa: artisti che ormai hanno un accento straniero, alcuni che tornano, altri che vanno. Chiedere a loro chi sono i rispettivi maestri porta spesso a raccogliere risposte scomposte o sguardi interrogativi. Non so se sia un bene o un male, ma forse la loro, la nostra, epoca non è più quella dei “maestri” ma quella degli “esempi”, degli incontri folgoranti e degli spettacoli catartici.

Quali sono i paesi emergenti in tal senso?
Mi sembra che, in quest’ottica, sia più interessante riflettere in termini planetari: i paesi occidentali, Europa, America, e oggi anche l’Asia sono i luoghi della scena contemporanea globale. Il Nord Africa e il Medioriente continuano a produrre immaginari che nutrono e arricchiscono il nostro tessuto culturale anche nell’ambito della danza, ma a mio avviso gli artisti che dovremmo osservare più attentamente sono quelli dei paesi africani: c’è un fermento culturale sconfinato laggiù, più strutturato di quanto noi europei pensiamo, con grandi maestre come Germaine Accogny e la sua Ecole des Sables, che oggi rischia seriamente la chiusura senza che i fautori dell’«aiutiamoli a casa loro» muovano un dito. Vedremo se la danza riuscirà dove la politica fallisce.

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