Il momento della riflessione. Il contatto con una natura terrestre e spirituale. Lo spazio per il sacro. E preghiere laiche. Che riconducono ai luoghi del silenzio e dell’anima, alla storia delle arti e delle comunità.
La seconda settimana del festival Il Giardino delle Esperidi, giunto alla XVII edizione, dà spazio a Cada Die Teatro, compagnia sarda capace di superare una rappresentazione oleografica di ambienti, persone e costumi per attingere l’essenza della propria dimensione regionale e sublimarla in rito collettivo. Cada Die approfondisce l’interiorità dei personaggi e la esprime attraverso un realismo magico che sconfina nella fiaba oppure nella leggenda.
Quest’ultimo è il caso di “Riva Luigi ’69-‘70”, monologo di Alessandro Lay, tributo a uno dei calciatori più forti del Novecento, bandiera del Cagliari e della Nazionale. Non è solo biografia, bensì la narrazione di un amore tra un lombardo e la Sardegna. Gigi Riva avrebbe potuto giocare nelle grandi squadre del Nord Italia oppure all’estero. Avrebbe potuto collezionare titoli e trofei e guadagnare il quadruplo. Invece scelse Cagliari, dove militò dal 1963 al 1976. Un’avventura iniziata e conclusa in serie B. In mezzo, dodici anni di gloria, i titoli di capocannoniere, i record con la Nazionale e un piccolo miracolo: lo scudetto della storica stagione 69/70.
Un bambino fragile, Gigi Riva, troppo presto orfano. Un uomo schivo di grande temperamento. Un attaccante fulmineo negli scatti, potente nei dribbling, micidiale nel tiro. “Riva Luigi ’69-‘70” è uno spettacolo avvincente. È un atto d’amore e di riconoscenza. Dimostra che se il calcio è metafora della vita, l’immagine arriva più potente se mediata dal teatro.
Dall’elegante cornice di Villa Sommi Picenardi a Olgiate Molgora, nel cui giardino si svolge il monologo su Riva, Cada Die si trasferisce a Mondonico, ridente frazione con veduta sul bosco di Montevecchia.
È lo scenario ideale per “Il respiro del vento”, spettacolo di musica e parole di e con Mauro Mou e Silvestro Ziccardi, e il contributo a luci e suoni di Matteo Sanna.
È la caleidoscopica fiaba di un ragazzo che va in cerca della pioggia in una terra assetata, si smarrisce e si ritrova grazie alla forza salvifica dell’amore. In una commistione di sacro e profano, in una sinestesia di luci e vibrazioni dentro il lussureggiante paesaggio lombardo, assistiamo a un’esuberanza di parole, canti, suoni di campanacci, belati, muggiti. Fino a un estroso tuca-tuca in salsa sarda.
Sotto un gigantesco fico brianzolo traboccano i suoni della Sardegna.Tra narrazione e teatro di figura, tra mito (di Iside e Osiride) e concerto, “Il respiro del vento” affascina grazie a travestimenti e maschere. Il rimbalzo scenico tra i protagonisti, pur nella narrazione frammentata, si fa virtuoso sobbalzo di suoni. Le voci degli animali riprodotte in scena echeggiano sulla natura circostante. A puntellare il tutto, l’armonico mix di launeddas e ocarina, guitalele e clarinetto soprano.
Un’euritmia di suoni e canti che sembra invece generata dalla natura è quella di O Thiasos TeatroNatura di Sista Bramini. “Canti dal vivo”, con Camilla Dell’Agnola e Valentina Turrini, è un’orchestra di voci a cappella. È rito sonoro. Tutto è musica a Mondonico, attorno a Mulino Tincati: la brezza leggera, il crepitio delle foglie secche sotto i passi itineranti degli spettatori, il suono di strumenti a corda o a percussione. Qui l’incontro è relazione. Gli uccelli fanno sentire il loro coro. Le nuvole si fermano ad origliare. In costumi rossi come il fuoco vivo, neri come la terra riarsa, le artiste sono creature silvestri. Sono goccia, rugiada, erba, rami. Il fruscio del ruscello sottostante asseconda il fluire di armonie ucraine, georgiane, salentine o grecaniche. Con effetto edulcorante sulla mente, che si dispone alla quiete.
Ritroviamo Camilla Dell’Agnola alla viola e alla voce in “Athene Noctua”, altro lavoro di O Thiasos e Sista Bramini che intreccia il poema conviviale pascoliano “La civetta” con antiche melodie per lo più mediterranee. Con l’accompagnamento di Silvia Balossi alla kora (un’arpa africana) e di Daniele Ercoli al contrabbasso, si dispiega una geografia di voci che puntella il poemetto dedicato a Socrate con una serie di notazioni impressionistiche. Ne nasce un’equilibrata composizione narrativa. L’atmosfera notturna intrisa di venature malinconiche si alleggerisce grazie al canto e alla musica. Come la civetta, allegoria dell’anima di Socrate che si libra dopo la morte verso il cielo, affiora una poetica del respiro che è attraversamento liminale, celebrazione del tempo cristallizzato sopra la caducità della vita.
Un itinerario del silenzio caratterizza due lavori in cuffia. “Piazza della Solitudine _promenade” del Collettivo Wundertruppe è una perfomance tra luoghi inconsueti di Olgiate Molgora. Si parte dalla stazione ferroviaria, luogo d’attese, addii e (ri)partenze. C’è la metafora del viaggio. Anche l’orario scelto (l’alba o il tramonto) rappresenta un altrove, la soglia verso un luogo indefinito. Alle cuffie si affollano pensieri e parole ed è paradossale, perché la solitudine inizia dal silenzio. Ma solitudine è anche stare tra gli altri e sentirsi irrisolti, in bilico tra estensioni contrastanti. In questa performance si avvicendano raccoglimento, analisi, meditazione.
La solitudine angosciante la incontriamo per caso. È un giovane magrebino ubriaco che, temendo d’essere fotografato, ci minaccia dentro il parco dove in cerchio e a lume di candela, tra sprazzi di poesia e danza, si chiude il nostro breve cammino di un’ora dietro una ragazza con ombrello a spicchi.
Un viaggio è anche quello di Marco Cacciola in “Farsi silenzio”, alla ricerca di che cosa sia «il sacro oggi». E qui c’è un altro paradosso. Perché il nostro, supportato alla drammaturgia da Tindaro Granata e al suono da Marco Mantovano, pare escludere dalla ricerca, con giudizio aprioristico, tutto ciò che riguarda la religione e il divino. La vera ricerca è invece abbandono senza pregiudizio, abbraccio della totalità, lasciando che la corrente ci spinga in qualunque direzione, anche quella che mai avremmo preventivato. Cacciola si definisce «scettico, agnostico, forse ateo», ma di questo non siamo convinti, perché il vero ateo è lo sciocco che non si pone domande. Egli, invece, le domande le pone a sé stesso e agli altri, mettendo a nudo anche i propri schemi. Cambiamo opinione di nuovo: questo lavoro, con le sue contraddizioni, ci pare sincero. Ci emoziona sentire la voce registrata di Antonio Tarantino, che invitava a cercare il sacro nei derelitti, tra i binari di una stazione, oppure nei dipinti di Hopper. Ci emoziona il bimbo che identifica il sacro con i colori dell’arcobaleno, e la signora cieca che dell’arcobaleno vorrebbe sentire il suono. Senza ponderarlo, in un misto di pudore e stordimento, il protagonista forse non ignora che il sacro l’ha già incontrato: nel poeta, nella donna cieca, nel bimbo; nella musica che riproduce il suono dell’arcobaleno; nel cri cri del grillo a sera nel verde all’imbrunire; nel rito del teatro, di noi spettatori che ascoltiamo una voce dentro cuffie forse pleonastiche. Il sacro sta in Cacciola stesso: nell’ingenuità di bimbo quando faceva il chierichetto, nello sguardo del padre in ospedale. E in quello suo, che padre a sua volta lo è diventato da poco.
Riconoscersi, ritrovarsi. Ripartire per arrivare. Riprendere il viaggio con delle risposte sempre e comunque insufficienti. Questo cammino assomiglia più a quello di Ulisse che a quello di Dante: la meta si allontana ogni volta che è a portata di mano. Il viaggio dura l’intera vita.
Non è bastato invece l’intero flusso della storia per emancipare la donna. Bella idea quella di Principio Attivo Teatro. Che in “Preghiera del mattino” con Silvia Lodi (drammaturgia Valentina Diana, regia Giuseppe Semeraro) offre una carrellata di figure femminili dell’Antico Testamento nel giogo della solitudine e di un assoggettamento all’uomo che a tratti diventa violenza. Le donne evocate in scena sono personaggi semplici senza nome né identità. Sono oggetti di trastullo. Sono figure evanescenti, occasioni di sfogo per maschi narcisisti, predatori, cinici, violenti, vigliacchi: mariti, padri, fratelli, senza nerbo né coraggio.
Una scenografia semplice con abiti a vista: Silvia Lodi li infila e si trasforma. Dimmi che abito indossi e ti dirò che donna (biblica) sei: quali ipocondrie e fragilità, quali soprusi subiti, quali abiezioni che ti rendono schiava o cadavere. Queste donne sono carne da sacrificare o da maciullare Il riscatto è nel testo rigoroso che unisce poesia e denuncia. È nella prova attoriale poliedrica, sostenuta, passionale. È nella regia pulita, che come una preghiera lascia spazio alla drammaturgia e alla performance.
C’è anche il cinema in questa edizione del festival. Infiliamo le cuffie, e parte il sound elettronico di Luca Maria Baldini a sonorizzare “L’uomo meccanico” (1921) di André Deed nel centenario di questo film di fantascienza degli albori, antenato di “Terminator”. Un bel modo di far dialogare tecnologie e sensibilità artistiche a distanza di un secolo. La colonna sonora eseguita dal vivo nella notte stellata della corte del Gelso, a Mondonico, procede con ritmo sostenuto, senza esasperare i momenti ossessivi. La propulsività irregolare evita la facile didascalia. Il soggetto avveniristico del film sembra fatto apposta per la musica di sintetizzatore e chitarra elettrica creata da Baldini.
Le Esperidi hanno sempre un occhio di riguardo per l’infanzia. Scarlattine Teatro propone “Angeli di terra”, e già il luogo della rappresentazione è spettacolare. Siamo a Bestetto, frazione di Colle Brianza, in un recesso abitativo dove si trova una Yurta, la grande tenda rossa che una volta era abitata dai nomadi delle steppe. All’interno, uno strano, imponente marchingegno meccanico emette suoni insoliti. In questo microcosmo remoto si riproduce ciò che resta di uno scenario apocalittico. Due sagome terraquee ibride (Anna Fascendini e Stefano Pirovano) si arrabattano per ricreare una forma di vita, premessa di un mondo che forse rinascerà.
“Angeli di terra”, che si vale della drammaturgia di Giusi Quarenghi, dei costumi di Stefania Coretti e del contributo di Diego Dioguardi ai suoni e alla costruzione della macchina scenica (realizzata con Matteo Lainati), è uno spettacolo in cui contano la manipolazione della materia, l’uso della fantasia e la sensibilità ambientalista stimolata in bambini e adulti. Occorre però la mediazione degli artisti per una buona decodifica dei linguaggi e degli obiettivi di questo lavoro, che è una riflessione onirica sulla salute del Pianeta Terra.
Chi pensasse che lo streaming a teatro non sia altro che forzatura e adulterazione, e che il teatro sia possibile solo dal vivo, venga a vedere “Il gatto con gli stivali” di Campsirago Residenza, drammaturgia e regia di Marco Ferro. Ne guardi la versione digitale, che è paper theatre, stop motion, pop-up theatre, disegno animato con cartone, fogli di giornale e vinavil, colla in stick e plastilina, carta cuoio e carta lana, Das e argilla. E poi assista alla versione della stessa fiaba in presenza, con Soledad Nicolazzi in scena, la scenografia e i costumi di Stefania Coretti e le musiche di Luca Maria Baldini. Si accorgerà di due forme di teatro tanto alternative quanto credibili, che dimostrano che il problema del teatro in tempi di pandemia non è stato lo streaming, bensì il cattivo uso che se n’è fatto.
In entrambi i casi il nucleo prescelto della fiaba è il “Pentamerone” di Giambattista Basile. La versione live è caratterizzata da un buio immaginifico e un filo di luce lunare. L’ambientazione è bohémienne. Un berretto, una ciabatta; una scarpa da tennis e un vecchio scarpone; un paio d’occhiali e due secchi; una molletta per attaccare i panni da asciugare o la manica sgualcita di un abito dismesso; una dentiera consumata, e spazzolini da buttare; un guanto da cerimonia e due stivaletti rossi spaiati: sono gli ingredienti rudimentali che animano i personaggi in una scenografia di cassette di legno.
Il gatto in realtà è una gatta, in una discarica tra i fumi del pattume bruciato, dove anche gli uomini rovistano e si contendono un pezzo di pane ammuffito. Una storia di bassifondi metropolitani, povertà e solitudine. Atmosfere tra Charles Dickens e Tim Burton. Artigianato teatrale. Soprattutto un talento multiforme, e la capacità di adattarlo alle circostanze. Brava Soledad Nicolazzi a entrare con le parole, con la mimica, con gesti schietti e con il canto, nello spirito della fiaba e a dare spessore ai suoi tanti protagonisti.
Con la sua capacità di adattarsi a seconda dei contesti e del pubblico, il “Gatto con gli stivali” nella doppia versione digitale e live, è una bella metafora di questo festival. Che cambia pelle senza snaturarsi. E soprattutto punta alla qualità, in questa edizione tra le più belle degli ultimi anni.