Bros di Romeo Castellucci: guardare non è un atto innocente

Bros (ph: Luca Del Pia)
Bros (ph: Luca Del Pia)

Piersandra Di Matteo ha collaborato alla drammaturgia, mentre Scott Gibbons firma anche stavolta le musiche

Quello di Geremia, uno dei profeti maggiori, definito il “profeta sofferente”, è un libro dell’Antico Testamento composto da 52 capitoli. Vi è scritto: «Appena ho trovato le tue parole, io le ho divorate; le tue parole sono state la mia gioia, la delizia del mio cuore, perché il tuo nome è invocato su di me, Signore, Dio degli eserciti» (Geremia 15:16).

C’è un legame intrinseco e cupo tra l’uomo, le parole e colui che viene definito come il “Dio degli eserciti”. Con il vecchio profeta Geremia, con la sua faccia, la barba e la lunga tunica di colore bianco, inizia “Bros” del regista cesenate Romeo Castellucci. Le sue parole incomprensibili sono arcane e misteriose, sembrano implorare clemenza, invocando quel potente superiore che già gli aveva detto: «Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò».

È decisamente singolare il fatto che le uniche parole proferite da Valter Dellakeza, l’attore che in “Bros” interpreta il profeta canuto, siano icastiche e indecifrabili. Ed è altrettanto peculiare il fatto che le parole vivano sulla scena nell’unica forma di alcuni pensieri scritti in latino. “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”.
Le parole esistono, muovono le azioni dei “fratelli poliziotti” mediante ordini silenziosi, impartiti con gli auricolari, come un segreto sussurrato all’orecchio. Gli spettatori non potranno mai percepire quei suoni, potranno vedere, senza udire mai le parole emesse dal “Dio degli eserciti”.

Un uomo solo, Geremia, possiede il dono della divulgazione, poiché il Signore ha messo le sue parole nella bocca del profeta. Per “sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”. Le parole che egli annuncia gli attirano persecuzione, prigione, tortura, fino alla morte per mano dei suoi discepoli.

C’è un’analogia evidente tra i racconti biblici e la drammaturgia di “Bros”, dove i seguaci in uniforme nera, cappello con visiera, armi e manganello sopprimono il profeta, riducendolo al silenzio. Uomini che, ad eccezione degli attori Valter Dellakeza, Luca Nava e Sergio Scarlatella, sono stati reclutati attraverso una chiamata pubblica e che hanno prestato un giuramento, promettendo di essere disposti a diventare, a credere di essere poliziotti e a eseguire ciecamente gli ordini assegnati.

Ogni comando, ogni sistema complesso di parole, è diverso per ognuno di loro. Come devoti miliziani devono ascoltare ed esperire le pratiche assegnate in tempo reale, senza metterle in discussione, senza ripetere o raccontare ciò che ascoltano. Con spirito di sottomissione eseguono azioni per comporre le immagini che gli spettatori osservano. Il compito dei fratelli-poliziotto è obbedire e farsi obbedire. Per loro esiste il rischio che non recepiscano con esattezza le istruzioni registrate. Secondo Romeo Castellucci, però, questo rappresenta l’aspetto più interessante del progetto/esperimento che mette in rilievo l’attitudine all’obbedienza. Fino a che punto una persona si spinge e quali sono i suoi limiti?

I fratelli in divisa portano in scena oggetti e immagini diverse; quella di Samuel Beckett, di una scimmia, di una zampa d’oca, il volto di una ragazza. Per ognuna di esse si determina un effetto specifico, reversibile o irreversibile, una reazione uguale o contraria di interesse o disinteresse. I poliziotti si imbrattano l’un l’altro con un liquido rosso sangue, eseguono torture, pestaggi, più o meno simulati, rompono la quarta parete e scendono dal palco per accerchiare gli spettatori seduti in platea, lavano le armi e la scena con un tubo d’acqua. L’acqua viene usata per il waterboarding, per lavare lo sporco e le emozioni, i sentimenti, per esaltare e celebrare la superiorità di qualcuno o qualcosa. L’acqua come simbolo di splendore, di grandeur e di propaganda viene diffusa mediante un organo che emette vapore acqueo, azionato dalle raffiche musicali di Scott Gibbons, sparate in aria come proiettili.

Solenne arriva il momento in cui si compie il prodigio: l’apparizione di un idolo bianco e meccanico, un po’ uomo e un po’ alieno. I militari lo venerano e lo adorano, distribuiti in schiere geometriche perfettamente realizzate.
Con l’ultima scena, un raggio di luce sembra squarciare quel buio e quei drappi scuri con sentenze scritte in latino. Ritorna l’anziano profeta in compagnia di un bambino. Entrambi sono scalzi e vestiti di bianco. La speranza, però, cede il passo allo sconforto e all’angoscia. “De pullo et ovo”, del pulcino e dell’uovo: la luce sembra morire allorquando un oggetto viene consegnato al fanciullo, in un rituale di iniziazione. Si tratta di un manganello, simbolo di potere e di brutalità. Della violenza che, nell’impianto repressivo della società contemporanea, non solo è permessa ma spesso diventa utile o necessaria. In carcere, nelle aule dei tribunali, nei casi di cronaca dove le forze dell’ordine rappresentano il nemico, nella gestione dei flussi migratori, nelle strutture di cura delle persone anziane, dei tossicodipendenti o delle persone con problemi di salute mentale. A volte, legge e giustizia sono lontani tra loro, non coincidono, addirittura sembrano andare in collisione.

Il reato di tortura e di istigazione alla tortura è stato introdotto nel nostro ordinamento soltanto nel 2017. Dal caso più eclatante, come la morte di Stefano Cucchi, fino a quelli più attuali, come i pestaggi nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere o di Ivrea, si evince che quello della violenza istituzionale è un delicato tema di attualità. Per non parlare del sovraffollamento e dei suicidi negli istituti di pena, delle lunghe e disumane attese per avere un permesso di soggiorno o un processo in tempi brevi.
Non è facile né semplice assumersi la responsabilità di decidere, di legiferare, di intervenire applicando la legge, ma nessuno – dai cittadini comuni a chi ha un ruolo istituzionale – può o deve sottrarsi alla necessità di riflessione e di analisi. Serve una presa in carico affinché i mezzi e le organizzazioni possano finalmente cessare di essere strumenti e sistemi di oppressione. Affinché le persone coinvolte possano individuare la spinta e la motivazione al cambiamento, al recupero e al reinserimento nella comunità di chi ha commesso un reato o di chi è in una condizione di fragilità. Ricordando che esiste una connessione tra il fenomeno punitivo e ogni forma di disadattamento. Spesso è il contesto sociale di riferimento a modellare il disagio, l’emarginazione, la devianza.

Romeo Castellucci sembra voler controllare l’istinto umano alla ferocia inquadrandolo nell’atto di obbedienza della performance. Il codice predisposto e concordato di “Bros” ricorda tragicamente la violenza istituzionale, integrata nel tessuto sociale in quanto prescritta dalla legge. Quest’opera non solo va vista ma è di preziosa utilità per interpretare il presente, il peso del reale. Un lavoro che frequentemente è stato definito “cupo”, ma sono i nostri tempi ad essere cupi. Non può esserci altra forma di raffigurazione se non questa. Castellucci è in forte contatto con l’oggi, racconta di noi, di come siamo ora, di come siamo stati fino a ieri.
Il suo stile, la sua essenza permettono a noi spettatori-performer di riconoscerci in una struttura regolata e violenta. Ancor più pericolosa, più reale del reale. L’arte dice qualcosa di essenziale su di noi e sul mondo. Per Adorno, come per Castellucci in “Bros”, l’arte conduce e scaraventa sulla soglia del dolore del presente, della storia. Apre gli occhi sul mondo con le sue contraddizioni e lacerazioni, con il senso di alienazione. “Bros” riesce a dare forma a questi pensieri e a suscitare emozioni. È la psicosi e, insieme, la cura.

Guardare l’opera di Castellucci pensando di scorgere ripetizioni o inflessioni nella sua attività, nella dialettica della sua forma artistica, ipotizzando di misurare con precisione il suo furore iconoclasta, confrontandolo con i ricordi e lo scalpore del passato, è un falso problema. È un po’ come la sensazione di (voler) ripercorrere o ripetere lo stesso sentiero, il primo bacio, l’ultimo dolore, la sconfitta più pesante che è stata vissuta. Poiché nello stesso fiume – Eraclito docet – non è possibile entrare e bagnarsi per due (o più) volte, come le altre volte. Né l’uomo, né quelle acque saranno più le stesse.
Guardare “Bros” significa immergersi per vedere (anche) sé stessi.
Oltre le forme, la tecnica, il linguaggio dell’artista, quanto si è disposti a riconoscere, ad entrare in intimità con le proprie impurità?
Parafrasando lo stesso Castellucci, l’atto del guardare non è, e non può essere, soltanto un gesto meccanico. Gravido di conseguenze, guardare “non è un atto innocente”. E, da adulti, non si può essere (quasi mai) innocenti con sé stessi, forse perché l’equivalenza tra essere innocenti ed essere inconsapevoli è difficile, se non addirittura impossibile.

BROS
concezione e regia Romeo Castellucci
musica Scott Gibbons
collaborazione alla drammaturgia Piersandra Di Matteo
assistente alla regia Silvano Voltolina
scrittura degli stendardi Claudia Castellucci
con Valer Dellakeza e con gli agenti Luca Nava, Sergio Scarlatella
e con Giovanni Antonini, Filippo Braucci, Sandro Calabrese, Sergio Casini
Davide Cherstich, Nicola Ciaffoni, Marcello Di Giacomo, Stefano Donzelli, Gabriele Ferrara
Francesco Gentile, Damjan Gomisel, Pietro Lancello, Alessandro Mannini
Mauro Mercatali, Michele Petrosino, Lorenzo Picca, Danilo Rubcich
Nicolas Sacrez, Piergiorgio Maria Savarese, Fabio Sinnona, Carlo Suppressa
Andrea Vellotti, Vincenzo Vennarini, Luigi Vilotta e con il piccolo Filippo Fermini
direzione tecnica Eugenio Resta
tecnico di palco Andrei Benchea
tecnico luci Andrea Sanson
tecnico del suono Claudio Tortorici
responsabile costumi Chiara Venturini
sculture di scena e automazioni Plastikart studio
realizzazione costumi Atélier Grazia Bagnaresi
traduzioni dal latino Stefano Bartolini
direttrice di produzione Benedetta Briglia
promozione e distribuzione Gilda Biasini
produzione e tour Giulia Colla
organizzazione Caterina Soranzo
equipe tecnica in sede Carmen Castellucci, Francesca Di Serio, Gionni Gardini
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
consulenza economica Massimiliano Coli
Societas, in co-produzione con: Kunsten Festival des Arts Brussels;
Printemps des Comédiens Montpellier 2021 ; LAC Lugano Arte Cultura; Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène Européenne; Temporada Alta 2021; Manège-Maubeuge Scène nationale; Le Phénix Scène nationale Pôle européen de création Valenciennes; MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis; ERT Emilia Romagna Teatro; Ruhrfestspiele Recklinghausen; Holland Festival Amsterdam; Triennale Milano Teatro; National Taichung Theater, Taiwan

Durata: 1h 30′
Applausi del pubblico: 5′

Visto a Roma, Teatro Argentina, l’11 marzo 2023

 

 

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