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Quali Buone Pratiche per un teatro della crisi?

Federica Fracassi|Le Buone Pratiche del Teatro 2011

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Le Buone Pratiche del Teatro 2011
Le Buone Pratiche del Teatro 2011 (photo: klp)

Viviamo l’epoca del teatro della (e in) crisi. Si dice ovunque. E unanime appare l’urgenza di soluzioni nuove e risolutive: si auspica (o implora) un risorgimento artistico. Viene invocato in numerosi campi il concetto di resilienza come ultimo, salvifico concetto-trend.

Di questo e altro si è parlato sabato scorso, alla Cavallerizza Reale di Torino, in occasione della settima edizione delle Buone Pratiche del Teatro organizzate dalla webzine ateatro. Un’edizione 2011 che non poteva avere come titolo che “Risorgimento!” e, dunque, come sede Torino, con un focus dedicato proprio alle realtà del territorio, e un altro alle figure e testimonianze ottocentesche del Risorgimento teatrale (Gustavo Modena, Adelaide Ristori, Tommaso Salvini, Ernesto Rossi, Giacinta Pezzana).

Un programma denso di nomi, in un lungo elenco di interventi scanditi meticolosamente, per tutta la giornata, da un timer-peperone, così da evitare eccessive lungaggini e garantire gli interventi previsti in scaletta. Un’arma, quella dell’incombente trillo del peperone, a doppio taglio: perché se ha garantito di esprimere a molte voci la propria (breve) opinione, non ha permesso di soffermarsi e creare dibattito là dove avrebbero potuto nascere riflessioni interessanti da approfondire.
Seduti fra il numeroso pubblico (e qualcuno, poi, sul palco per i rispettivi interventi) i volti di Roberto Latini, Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla (Festival delle Colline Torinesi), Fibre Parallele, Beppe Rosso, Gabriele Vacis, Stefano Labate (Teatro & Colline), Andrea Nanni

Le Buone Pratiche nascono da un’idea di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino per “individuare, nella pratica dei teatranti italiani, sempre pronti a lamentarsi ma anche assai creativi, una serie di pratiche, progetti e iniziative sul versante della produzione, dell’organizzazione, del finanziamento, della comunicazione”: idee che abbiano ottenuto risultati positivi e siano quindi replicabili da altri, magari in un’ottica di sinergia e collaborazione.

Ma proprio la sinergia tra gli enti di produzione è uno dei punti deboli del sistema italiano. A denunciarlo, in particolare, Velia Papa, direttore di Inteatro. Dall’alto della sua lunga esperienza – non solo festivaliera a Polverigi –, ha evidenziato un percorso negativo: “In Italia è impossibile fare rete; ci abbiamo provato ma non ci siamo riusciti. Con l’estero invece avviene [si veda anche l’altro esempio di Carta Bianca per il Festival delle Colline, ndr], ma con le altre realtà italiane no. E’ giusto fare filiera con differenti realtà produttive, ma come si fa ad interagire ottenendo un progetto culturale vincente? Penso manchino ancora le risposte”. Una carenza, quella del nostro Paese, che sembrerebbe affondare le radici nella “guerra” ai – sempre meno – fondi disponibili.
Eppure secondo Natalia Casorati, direttrice artistica di Interplay, gli esempi positivi ci sono: “La rete danza Anticorpi funziona. Certo, occorre lavorarci, incontrarsi, ma siamo un esempio di rete che funziona”. Un rara eccezione anche secondo Mimma Gallina.

Tra i festival presenti alle Buone Pratiche (Santarcangelo, Torinodanza, Festival delle Colline Torinesi, Fondazione Tpe…) anche Armunia, con il suo nuovo direttore artistico Andrea Nanni. Dopo l’addio di Massimo Paganelli, Nanni auspica per Castiglioncello un festival 2011 che affianchi alla programmazione tradizionale un cartellone “alternativo” fatto di spettacoli nei negozi, nelle case (grazie a un progetto con Virgilio Sieni), ma anche proposte pomeridiane per i bambini.
Mentre sui festival in Italia afferma: “In un sistema sano il festival è l’eccezionalità. Invece ora il festival supplisce alle carenze del sistema italiano dei teatri stabili, di innovazione o non. I festival, per loro costituzione, hanno bisogno di novità. Ma se poi i giovani non trovano sbocchi e realtà che li mettano alla prova e verifichino il loro lavoro, tutto si riduce solo a una enorme produzione di spettacoli”. E questa tendenza alla sovraproduzione, in effetti, pare colpire molte compagnie.
Un rischio indotto, anche qui, spesso dalla disperata ricerca di fondi. Bisogna pur mangiare, diranno in molti. Talvolta anche a scapito dell’arte o del pubblico, si potrebbe obiettare.

Ed ecco aprirsi un altro tema, curato da Giovanna Marinelli, ex direttore del Teatro di Roma: esiste il migliore dei bandi possibili?
La gara pubblica è oggi lo strumento più utilizzato per l’affidamento di strutture culturali al fine (istituzionale) di garantire trasparenza nelle scelte e pari opportunità a potenziali interessati.
Ma, anche a seguito di una ricerca svolta dalle ricercatrici Alessandra Narcisi e Sabrina Gilio, è emerso come in Italia gli attuali bandi (periodo di riferimento: 2008-2010) siano spesso di difficile reperibilità, non abbiano obiettivi chiari, manchino di una reale corrispondenza coi bisogni del territorio e, complessivamente, godano di poca trasparenza. Ragion per cui il bando, anche quando c’è, non garantisce sempre e come dovrebbe la libera concorrenza.

Più che i dati e un verdetto che fa del bando pubblico un mezzo che dovrebbe presentarsi in divenire e continuamente perfettibile, ci interessa maggiormente come si pongono le compagnie rispetto a questo mezzo economico per la produzione. Sabato si sono sentite due voci, quella di Paolo De Santis (Tecnologia Filosofica di Torino) e Marco Maria Linzi (Teatro della Contraddizione di Milano). “Per noi il bando è come un termometro che misura la nostra urgenza creativa – riassume De Santis – Tant’è che, in passato, è successo di vedere la possibilità di partecipare a un bando ma di non averlo fatto proprio perché mancava quell’urgenza”. Un principio che dovrebbe essere alla base di ogni lavoro artistico: evitare di creare un progetto solo per partecipare a un concorso.
Linzi presenta poi la situazione del Teatro della Contraddizione e la scelta coerente di non partecipare a queste opportunità: “Non corriamo dietro ai bandi e non ci riconosciamo nei loro parametri. Perché non azzerare tutti i finanziamenti e vedere chi ha davvero un’urgenza?”. Ci sono altre vie per finanziarsi, continua Linzi, e ulteriori ne vanno continuamente cercate. E conclude: “Milano è un cimitero di occasioni prima create e poi eliminate”.

Ma chi abita in altre regioni che non siano il Piemonte e la Lombardia potrebbe ritenere i colleghi dei privilegiati, visto che in altre zone d’Italia – soprattutto al sud – la situazione è anche peggiore. Eppure, perfino in quel Piemonte dove sembra brillare un’eccellenza, in fatto di bandi pubblici, come la Fondazione Crt, i dati non sono certo rosei.
Per questo, a chiamare all’appello tutta la popolazione è la “Carta Emergenza Cultura in Piemonte”, un invito rivolto a tutti i cittadini che, ritenendo importanti i beni e le attività culturali, firmino per sostenere la richiesta di ripristino dei fondi dello Stato, della Regione e degli enti locali. Il comitato spontaneo, composto da operatori, invita a riflettere su alcuni dati: l’Italia nel 2010 ha investito lo 0,21% del Pil e per il 2011 la cifra è scesa allo 0,1%, contro una media europea d’investimento in cultura del 3% del Pil. La spesa regionale del Piemonte per la cultura nel 2011 sarà dello 0,31% del bilancio totale (ossia un esborso procapite annuo a carico del singolo cittadino inferiore ai 15 euro). Cifre che non hanno bisogno di essere commentate.

E allora sono da sperimentare e adattare alle rispettive realtà gli input presentati da Adriano Gallina: azionariato diffuso, tassa di scopo, acquisizione dello status di onlus… insieme a varie ed eventuali altre modalità di autofinanziamento.

Nel pomeriggio, all’interno del momento dedicato a “Costi di produzione in crescita, finanziamenti tagliati, investitori latitanti, critica marginalizzata, pubblico disorientato: come reagire?”, fra modelli per un teatro civile e tecniche di smarketing applicate al teatro, Elena Cometti presenta la rete dei teatri di Resilienza (inizialmente composta da sei gruppi, ora in espansione, che condividono obiettivi etici pur essendo artisticamente molto diversi tra loro) che ha deciso di aggregarsi per resistere alla crisi cercando un paradigma culturale diverso da quello economico imperante, ossia andando nella direzione della decrescita. I concetti (così come quello di filiera corta) arrivano dall’economia e si riciclano nell’arte.

Di marginalità della critica parla invece Renato Palazzi, vedendo ormai dilagare anche in questo campo molta crisi, e spiegando dunque il suo (inusuale) passaggio dalla recensione al palco, in veste di attore. Se ai giornalisti arruolati in teatro con reading di denuncia siamo ormai abituati (da Daniele Biacchessi, anche lui presente alle Buone Pratiche a raccontare il suo teatro civile, a Marco Travaglio o Gian Antonio Stella), per un critico ci pare forse più strano: “Questo per me è il momento peggiore della critica da 42 anni a questa parte, ossia da quando svolgo questo mestiere. E penso peggiorerà ancora – sostiene Palazzi – Passare dall’altra parte e fare uno spettacolo da attore è stato per me un momento di grande arricchimento e crescita. Non volevo essere provocatorio, ma ero insoddisfatto e ho fatto una scelta diversa”. “Una delle malattie del critico è che accumula per anni fatti, sensazioni… e dopo un po’ ha bisogno di scaricare facendo qualcosa di attivo”. Venticinque anni fa la svolta di Palazzi poteva essere la direzione della Paolo Grassi, ora è diventata questo passaggio al teatro recitato nelle case. Dal 20 settembre ha iniziato a replicare “Goethe schiatta” di Thomas Bernhard a Milano, in casa propria o di amici; a Torino è stato ospitato dai Marcido Marcidorjs mentre a Ravenna a casa del Teatro delle Albe: “Mi piace fare questa cosa per persone di teatro verso cui ho stima e che magari ho seguito negli anni. Mi piace essere giudicato da chi in passato ho giudicato: uno scambio di ruoli assoluto e totale”. Ma un po’ elitario, diciamolo.

Affermare che la critica è marginalizzata e in crisi può aprire ampi discorsi che, a chi scrive, potrebbero interessare per ovvie ragioni. Ma l’accusa di una critica messa in un angolo (dalla carta stampata in primis) sembra forse nascondere, da parte di chi il mestiere lo fa da decenni, la difficile rinuncia a uno status di privilegio, velleità di un passato ormai totalmente scomparso. Anche il mestiere di critico, come quello di giornalista, si è modificato, perdendo quella sorta di autorevolezza, rispetto e favore ricevuto in passato.
Le (ormai neanche più nuove) modalità di critica si sono moltiplicate; i mezzi pure; le voci di conseguenza. Con una propensione ad avvicinarsi al lettore molto più che in passato, anche a quello giovane (tanto che i corsi di critica si moltiplicano pure all’università); con un livello qualitativo variegato e non sempre all’altezza, e per questo troppo spesso facilmente livellato in un gran calderone.

A tal proposito la “Carta dei diritti e dei doveri del critico”, presentata da Claudia Cannella di Hystrio alle Buone Pratiche, non fa che esporre regole professionali del buon senso, valide ieri come oggi, che dovrebbero essere alla base di ogni lavoro giornalistico. Ne cito solo alcune:
– il diritto di scrivere in piena libertà ma il dovere di argomentare, senza presunzioni aprioristiche di saperi e competenze, pesando le parole ma usando parole pesanti quando necessario
– il diritto di essere soggettivi e di difendere i propri gusti ma il dovere di leggere tutte le sere due spettacoli: quello che si svolge davanti ai nostri occhi e quello che si svolge accanto a noi, in platea, domandandoci sempre: “Consiglierei questo spettacolo a un amico che non si occupa di teatro?”
– il diritto di “sporcarsi le mani”, di mettersi alla prova nelle diverse professioni del teatro, di avere amici e amanti in scena o dietro le quinte ma il dovere di non recensire spettacoli in cui si è coinvolti a vario titolo (se ci sono in scena amici, parenti, amanti; se si è tradotto il testo; se il proprio lavoro si è spostato in settori contigui come direzione/lavoro in festival, ufficio stampa, organizzazione, distribuzione…)
– il diritto di scrivere con il proprio stile ma il dovere di chiedersi per quale tipo di lettore si stia scrivendo, di evitare autoreferenzialità e autocompiacimento, rimanendo intellegibili e ricordandosi che il confronto passa attraverso la comprensione, non solo dei propri colleghi.

Regole di equilibrio, coerenza e indipendenza che garantiscano serietà, autonomia di giudizio e una distanza equilibrata fra l’artista e il giornalista. Norme che, quando si attua una scelta professionale di questo tipo, sono la base affinché un percorso possa continuare, crescere e non essere autoreferenziale. Insomma, più che una buona pratica, una scelta etica indispensabile.

Federica Fracassi o Miss Ginger Noisy (photo: Lorenza Daverio)

A movimentare la giornata quelli che possiamo definire i due “momenti clou” di questa edizione.
Il più divertente l’ha offerto senz’altro Federica Fracassi (alias Ginger Noisy) del Teatro I di Milano, nel suo intermezzo “Il burlesque come Buona Pratica dell’autofinanziamento?”. Quando musica e ammiccamenti finiscono, e lei raggiunge l’asta del microfono, non priva di verve e simpatia, ripercorre i progetti ideati nel tempo per sovvenzionare il teatro che gestisce insieme a Renzo Martinelli. Idee non sempre andate in porto, nonostante la buona volontà e anche l’originalità. Così, ripensando a Monica Vitti, alla Magnani “…e anche al mio corpo un po’ burrosetto”, ha preso qualche lezione e si è trasformata in artista di burlesque, alternativa che è piaciuta ed è stata replicata, aiutando le casse di Teatro I. “Certo – conclude – preferirei fare solo il mio mestiere”, ma per amore di un progetto che si è fatto nascere e in cui si crede occorre sempre rimettersi in gioco ed inventare qualcosa di nuovo. E anche il burlesque può diventare una Buona Pratica di autofinanziamento.

Il momento più polemico della giornata lo regala invece Gabriele Vacis, che termina il suo intervento mattutino sull’economia e le risorse teatrali con un bel “vaffa” indirizzato al critico di Repubblica (assente) Alfonso Cipolla, reo di non aver apprezzato i suoi “Rusteghi” attualmente in scena proprio a Torino.
E se del rapporto fra critica e artisti si fosse voluto continuare a parlare (con tanto di reciproci diritti e doveri, come suggeriti da Cannella), proprio a partire da qui ci sarebbe stato senz’altro materiale interessante da sviscerare. Con interventi magari scoppiettanti.

L’edizione 2011 delle Buona Pratiche si è presentata come una vetrina di festival, compagnie e buone azioni, più o meno riuscite, in tempo di crisi.
Ma bandi pubblici migliori e trasparenti, resilienza, decrescita felice, crisi finanziaria e tagli, sprechi o finanziamenti a pioggia, strategie e difficoltà sono questioni di cui ormai si è discusso quasi fino alla nausea. Quali sono le novità vere che emergono? Cosa c’è di dirompente in questi buoni propositi già sentiti? E’ forse questo, nel complesso, a mancare.

Dopo tanti discorsi sul teatro, la sensazione è di tornare a casa col rammarico di non aver intercettato un fermento davvero innovativo che smuova (anche nel suo piccolo) questo periodo. Una vitalità contagiante che dia la forza – non solo a chi è in scena – di preferire la poltrona di un teatro piuttosto che quella del proprio salotto. Eccolo il lato debole di un teatro che, riunito per autoanalizzarsi, alla fine pare un po’ troppo fermo e chiuso in sé. Così preoccupato a cercar una modalità economica di sopravvivenza (e non si intende qui asserire che non ne abbia motivo), da scordarsi quasi dell’esistenza del suo interlocutore privilegiato: il pubblico.

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