“Burn skin” e “La festa è finita”: la nuova drammaturgia da pillole a spettacoli

Burn skin (ph: Luisa Fabriziani)
Burn skin (ph: Luisa Fabriziani)

A Roma, a Fortezza Est, una scena tutta al femminile con i due spettacoli di Carolina Cametti & Claudia Salvatore e di Carolina Germini & Giorgia Mazzucato

Dall’impegnativa maratona estiva di Fortezza Est, quelle “Pillole #tuttoin12minuti” che, all’interno di dodici giorni di programmazione di brevi estratti, hanno consentito di comporre coram populo parte della stagione dello spazio romano, estraiamo due incontri nella loro forma definitiva.
Si tratta di due dei 60 (!) “promo” che condividono la forza di una scena tutta femminile, e che ci consentono uno sguardo “a est” (di Roma) alla nuova drammaturgia della capitale.

Burn Skin (di Roberto Staglianò)
Due donne. Madre e figlia. Due testimoni di generazioni diverse che si parlano addosso, un flusso incessante di parole e di coscienza che comunica l’incomunicabilità, il disagio esistenziale, la diversità e la dipendenza reciproca. Un contorto gioco di livelli e di contrasti psicologici tra estensione, differenziazione e separazione di due menti e due corpi legati tra loro in una relazione biologica. Così potrebbe essere riassunto in sintesi “Burn Skin”.

La prima riflessione che emerge con chiarezza è che la drammaturgia di questa performance teatrale risulta essere irregolare nella forma e nei contenuti. Uno stream of consciousness, un flusso di parole e di immagini affastellate con una quantità di oggetti, di materiale di scena (felpe, biberon, tavolino, posacenere, gomitolo di lana…) che sembrano voler restituire allo spettatore un senso di confusione o di disordine, una scorpacciata di ricordi, simboli, idee, visioni. In altri momenti il linguaggio cambia, diventando ora lirico e drammatico, ora quotidiano ed esilarante. Molto spesso ermetico. Quest’ultima caratteristica rende la drammaturgia come un insieme di parti distaccate o smembrate tra loro con una carenza di organicità nel suo complesso.

Viene spontaneo chiedersi quanto una ricerca fin troppo studiata, troppo ragionata, troppo arzigogolata e costrittiva della performance riesca a restituire la necessaria verità a tutte quelle parole agite in scena. Questo può essere un limite (nonostante la bravura delle performer, Carolina Cametti e Claudia Salvatore, nonostante la loro tecnica fisica e vocale) quando risulta difficile immergersi, immedesimarsi in quello che accade nell’hic et nunc dello spettacolo. Quando diventa una pratica estraniante, insomma, fino a chiedersi: la poesia, la drammaturgia, l’arte in generale è o non è, deve o non dev’essere un viaggio nei segni decifrabili?

La seconda riflessione a latere è, in un certo senso, una diretta conseguenza della prima, ovvero che “Burn Skin” risulta essere un lavoro teatrale da affinare, da ripulire e da migliorare. Sarebbe bello immaginarlo un po’ meno performance e un po’ più racconto intimo e universale. Affinché possa realizzarsi una consustanziazione, una presenza reale del corpo e del sangue non solo tra una madre e una figlia immaginarie, astratte, ma tra interpreti, personaggi e spettatori del pubblico.

La festa è finita (ph: Manuela Giusto)
La festa è finita (ph: Manuela Giusto)

La festa è finita (di Carlo Lei)
Rebecca e Sofia: è la prima, Eleonara Bernazza, che sta in scena e monologa.
Un po’ troppo forte di gambe si sente Sofia, almeno fino alla dieta, un po’ troppo bruttina, un po’ troppo solitaria, un po’ troppo e sempre comunque qualcosa di meno rispetto alla seconda, la cugina inseparabile, insieme invidiata e amata – una “Amica geniale” al contrario. Amanti strane e sole, le due, figlie di due sorelle che di battibecco in battibecco hanno finito per non parlarsi più. Ma attraverso la voce di Rebecca c’è anche l’altra, resa in uno sguardo dalla prospettiva segnata con tale vigore da risultare opinabile. È su quello sguardo sbilenco che si sgranano gli anni dell’adolescenza delle due nel testo, opera prima di Carolina Germini, che scorre nel tempo per decifrare lo sviluppo di quel rapporto.

C’è la vergogna, nelle vicende di Rebecca, la stessa dell’omonimo romanzo di Annie Ernaux per una condizione (sociale? non saprebbe dirlo, ma forse addirittura “antropologica”) percepita come fatalmente inferiore; c’è l’invidia, come detto, ma c’è anche la gelosia, un amoretto adolescente gettato nella carta straccia con una leggerezza crudele, un desiderio di sopraffazione appena percettibile in controluce, per il quale la violenza è l’ultima, imprevedibile spiaggia – e sul bagnasciuga si consumerà quello che, sulla scorta dei fatti di Avetrana, è il punto d’arrivo della vicenda, dopo una festa dei diciott’anni non del tutto riuscita, acme di una vita in subordine.

Grettezza propria contro acume altrui, difficoltà propria contro disinvoltura altrui, fatica contro naturalezza: di fronte a qualcosa che precede la consapevolezza non solo la piccola vita di Rebecca, ma anche il piccolo guizzante corpo che Bernazza le presta si fermano. L’incapacità di elaborare l’innegabile percezione di una vita alla rincorsa, un’inferiorità percepita chissà quanto nel proprio intimo, si fanno tangibili solo nel favore del mondo attorno. Eppure la malinconia è aliena dalla Rebecca sul palco, il peso di quel rapporto impacificabile è spesso e volentieri trasfuso in una risatina, in uno sforzo dal di dentro che non di rado rischia la scorciatoia del grottesco.

È un tema, questo della consapevolezza, che se nel testo è volutamente aggirato, la regia di Giorgia Mazzucato avrebbe ben potuto prendere di petto, sia pure come caparbio tabù, illuminato di sfuggita dalle crepe di una rigida ostinazione. Ma c’è ancora tempo, in vista delle repliche che accoglieranno il lavoro. Alleggerire gli schematismi e le trovate, come quella della corda, che da traccia segnata sul palco diviene strumento di morte per la gola di Sofia. Offrire a Eleonora Bernazza una spalla più sicura nello scavo, per liberarne l’interpretazione da ogni punto opaco, asciugarne ogni automatismo o cadenza, non solo perché più limpida sprizzi la ferocia, che porta ancora tutta sottopelle, ma perché alla tranche de vie provinciale subentri una storia che parli dell’odio che tutti, a briciole, nutriamo segretamente in cuore.

BURN SKIN
Una co-produzione Fortezza Est/ Campo Teatrale/ Mare culturale Urbano
Di e con Carolina Cametti e Claudia Salvatore
Disegno luci Giacomo Marettelli Priorelli
Suono Daniele Gennaretti

applausi del pubblico: 2′ 5”

Visto a Roma, Fortezza Est, il 12 novembre 2022

 

 

LA FESTA E’ FINITA
regia di Giorgia Mazzucato
drammaturgia di Carolina Germini
Con Eleonora Bernazza
Una produzione SB Teatro

durata: 55′
applausi del pubblico: 3′

Visto a Roma, Fortezza Est, il 2 dicembre 2022

 

 

Clicca per scaricare il PDF di questo articolo

0 replies on ““Burn skin” e “La festa è finita”: la nuova drammaturgia da pillole a spettacoli”