Cairns, Khan, Ponifasio: Edimburgo a sangue freddo

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Minetti (photo: Jane Hobson)|Gnosis (photo: Richard Haughton)|I am (photo: Christophe Raynaud De Lage)
Minetti (photo: Jane Hobson)
Minetti (photo: Jane Hobson)

Sono passati due mesi dall’ultimo Edinburgh International Festival, due mesi dalle probabili ultime repliche di “Gnosis” di Akram Khan, un lavoro che il coreografo anglo-pakistano sembra aver deciso di accantonare, almeno per il momento, per dare spazio ad altri inizi, ma che ha a che fare proprio col suo debutto alla scena.

Due mesi, a metà strada tra Edimburgo e la notte di Capodanno, la notte dell’attesa della possibilità di un altro debutto: quella di “Minetti” nella hall di un albergo di Ostenda, la sala in cui Peter Eyre e la regia di Tom Cairns hanno ridisegnato uno dei testi di Thomas Bernhard.
Due mesi anche dall’indimenticabile “I AM” di Lemi Ponifasio/MAU company: il debutto di una visione, di un oltraggio che non ammette redenzione, se non attraverso l’arte.

Akram Khan ha presentato a Edimburgo, e a Jonathan Mills allo scadere della sua carica alla direzione artistica del festival, uno spettacolo fortemente ispirato agli inizi del suo percorso teatrale, e in particolare all’incontro con Peter Brook, che a 13 anni lo scelse per il ruolo di Eklavvya, per gli ultimi due anni del tour mondiale del mitico “Mahabharata”.

In “Gnosis”, quel giovane guerriero, oggi uno dei coreografi più mainstream del Regno Unito, torna sulle scene del mito per dar voce ad altri personaggi del poema epico, e non a caso sceglie per sé il ruolo femminile di Gandhari.
Khan ci narra, attraverso il Kathak (danza della tradizione indiana), la storia della Dea dell’Intelligenza, senza la quale, ha spiegato, non sarebbe esistito Mahabharata: “Nessuna guerra. Perché lei ha la capacità di vedere il futuro, e lei sa che il suo figlio maggiore, Duryodhana, sarà il catalizzatore per la distruzione… ma lei sceglie di non ucciderlo”.

Gnosis (photo: Richard Haughton)
Gnosis (photo: Richard Haughton)

Khan, in assenza di Fang-Yi Sheu, ex prima ballerina della Martha Graham Dance Company e guest artist in “Gnosis” per la parte di Dhritarashtra, si è trovato solo sul palco assieme ad un complesso di sei elementi, e ha eseguito due pezzi di repertorio (“Polaroid Feet” e “Tarana”) e l’improvvisato “Unplugged”, infine l’assolo conclusivo di “Gnosis”.

Due parti distinte del programma ma due facce della stessa medaglia, in cui la danza tradizionale del Kathak si è mischiata prima con innesti di un classicismo musicale più occidentale, e poi con un movimento dagli accenti più moderni. Fino ad arrivare alla jam session finale ispirata al flamenco, nuovo serbatoio creativo per Akram Khan, anche grazie alla collaborazione con il coreografo spagnolo Israel Galván per “Torobaka” , che in prima nazionale ha inaugurato il Romaeuropa festival a settembre.

A due mesi di distanza, anche la maschera grottesca realizzata dal pittore James Ensor per Re Lear è tornata a riposare quieta nella valigia di “Minetti”, e a depositarsi nella memoria, a un passo dal suo disvelamento, ma per sempre custodita nel fascino delle grandi coincidenze tra attore e personaggio e tra l’attore di oggi e quello di ieri.

Il tocco leggero della regia e delle scenografie che Tom Cairns ha costruito per Peter Eyre mettono in risalto un set essenziale e nostalgicamente seventies, che solo attraverso piccoli e graduali sviluppi si trasforma nell’astratto e desolato open-space finale, teatro della tempesta della fine per colui che ha voltato le spalle ai classici, l’attore che da trent’anni non recita più, non si esibisce più, non calca più il palcoscenico.

Il personaggio shakespeariano, sempre sottotraccia nel grande ritratto dell’attore da vecchio di Bernhard, può ancora essere il pretesto per l’esibizione della diversità depositata nel corpo dell’attore, sempre fuori tempo nella sua follia tragica e al contempo ridicola. Fuori tempo rispetto anche alla schiera di giovani festanti, a loro volta mascherati, che attraversano ripetutamente la hall (15 allievi della Juilliard School Drama Division e della Royal Academy of Dramatic Art); e fuori tempo per il pubblico nuovamente precipitato nella catastrofe dell’arte, un essere differente che si aggrappa alla propria maschera ignorando il trascorrere della festa per l’attesa di un nuovo/vecchio debutto.

Un debutto, un inizio del tutto differente, quello del visionario “I AM” di Lemi Ponifasio e della sua compagnia MAU, che in lingua samoana ha il doppio significato di “rivoluzione” e “testimonianza di verità”, ed era il nome del movimento non violento di indipendenza samoana.

Lo spettacolo, dedicato alla commemorazione delle 20 milioni di vittime della prima guerra mondiale, si è aperto significativamente ad Avignone, Edimburgo e infine alla Rurhtriennale con l’inno nazionale del Paese ospitante. Nel nostro caso, un “God Save the Queen” dal retrogusto anti-colonialista, una presa di posizione chiara contro le ‘città dell’impero’ come era già stata quella di “Tempest: Without a Body”.

I am (photo: Christophe Raynaud De Lage)
I am (photo: Christophe Raynaud De Lage)

Ci introduce nell’invocazione poetica di “I AM” una lirica senza scampo, che sin da principio chiede allo spettatore di abbandonare ogni tentativo di comprensione e di essere accolta da un completo abbandono alla saturazione dei sensi.

Avvolti dalla danze e dai canti maori, dal ritmo lento e imperscrutabile della desolazione della guerra, dalle preghiere e dalle tenebre, 18 performer (provenienti da Nuova Zelanda, Europa, Australia, Canada, Turchia, Nuova Caledonia e Samoa) ci invitano a scavalcare attraverso l’immaginazione i confini della scena, mischiando continuamente i codici della tragedia, della lirica e della danza con innesti perturbanti, vicini o semi-nascosti sul fondale, negli anfratti di luce e tra le parole di “I applied my mind” di Colin McCahon.

I riferimenti sono l’Antonin Artaud di “Pour en finir avec le jugement de dieu” e l’Heiner Müller di “Hamletmaschine”, ma tutti introiettati e trasformati dalle coraggiose scelte registiche di Ponifasio. Una schiera di morti che oltraggia un’Ofelia completamente rasata, in sedia a rotelle, vestita di bianco, sanguinante, il fucile imbracciato, i fiori bianchi scomposti in grembo e un fiore rosso tra le labbra. Giacobbe in lotta contro l’angelo, una lotta mitica e perpetua, inscritta nella costellazione tatuata sui loro corpi.
La rivolta dei morti contro la morte culmina in un commovente e potentissimo assolo, il corpo nudo del teatro al centro della scena raschia il fondo della propria anatomia, per poi ricadere esausto a terra, sul piano inclinato tra il primo e il secondo stage, un Cristo in croce oltraggiato e nuovamente libero.

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