Per il centenario della nascita dello scrittore ligure, Fondazione Luzzati affida a Conte, Sicignano e Ortoleva una rappresentazione immersiva e diffusa del ciclo de “I nostri antenati” in tre capitoli (e un prologo)
Esiste un disegno, una sorta di quadratura astrale, con un passaggio dal macro al microscopico che ci porta a parlare del perché la produzione “I nostri antenati – trittico calviniano” della Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse capita proprio in questi giorni (in scena fino a domenica 26 novembre) nel tempo, nel posto, nei modi giusti.
Il 15 ottobre 2023 nasceva Italo Calvino, scrittore italiano fra i più tradotti al mondo in assoluto. I cent’anni dalla sua nascita sono la motivazione più palese della scelta dell’argomento. Eppure, l’occasione è ancora più urgente e motivata per il Teatro della Tosse: non solo il legame dello scrittore sanremese con le sue origini e la sua terra, ma ancor di più con il Teatro stesso nella sua essenza storica, così tanto impregnata dalle firme dei suoi ideatori, Emanuele Luzzati, che con Calvino ha intrattenuto un fecondo rapporto artistico oltre che personale, e Tonino Conte che ideò e diresse “Il mistero dei tarocchi” nel 1990, tra le produzioni più “storiche” e iconiche della Tosse, ispirandosi al “Castello dei destini incrociati” e a “La Taverna dei destini incrociati”.
Ecco quindi che l’idea della regista Laura Sicignano di allestire una drammatizzazione della trilogia de “I nostri antenati” (“Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”), accende la scintilla di un’occasione perfetta non solo per omaggiare il nostro grandissimo autore, ma anche per riproporre quel modo di fare teatro che è una cifra produttiva e stilistica costante e caratteristica della Tosse (si vedano le produzioni estive): la rappresentazione immersiva e diffusa.
I tre capitoli calviniani, affidati a tre registi diversi, Emanuele Conte, Giovanni Ortoleva e Laura Sicignano, sono quindi messi in scena in tre spazi diversi dei Teatri di Sant’Agostino (la sala Agorà de La Claque, il Luzzati Lab e la sala Trionfo), allestiti per gruppi itineranti di poche decine di spettatori, che assistono in stretta prossimità con gli attori e con la scena.
MAL VISCONTE MEZZO GAUDIO
Il primo capitolo della trilogia è a cura di Emanuele Conte, che firma la scrittura del prologo e la drammaturgia del “Visconte dimezzato”.
Il pubblico viene accompagnato in sala da un vecchio cavaliere in armatura, Enrico Campanati in veste di prologo, un cavaliere che racchiude le caratteristiche dei cavalieri presenti in tutta la trilogia, immobile da anni in attesa del cambio guardia, fin tanto da fare il muschio: è diventato una creatura arborea.
Si entra in sala Agorà e si è sorpresi nel trovare lo spazio della rappresentazione completamente sbaragliato nella realizzazione scenografica di Conte e Luigi Ferrando: una specie di salotto wunderkammer in stile decadente da primo Novecento. Le sedute per gli spettatori sono disposte lungo i due lati di una passerella a terra, come il parterre di una sfilata, alle cui estremità abbiamo da un lato il palco, dall’altra un salotto borghese. Tanti libri, lampade, divanetti vittoriani, una macchina da scrivere su uno scrittoio. Non manca una proiezione di disegni animati in bianco e nero, a mo’ di cinematografo, a richiamare le prime pagine del romanzo di Calvino.
La scrittura di Conte compie una felice selezione dei passaggi e dei personaggi calviniani, finanche delle parole stesse, tanto che si ha quasi l’impressione di star assistendo ad una mise en espace, una trasposizione fisica e materica del romanzo, attraverso i corpi dei tre attori (Pietro Fabbri, Antonella Loliva e Matteo Traverso) che agiscono e interpretano all’occorrenza più parti, muovendo le scene, entrando e uscendo da porte nascoste come passaggi segreti, fino a calarsi nei panni dei tre personaggi principali. La recitazione e i toni sono tenuti alti, nei volumi della commedia (si sorride spesso per merito dell’ottimo Pietro Fabbri), in un’atmosfera vagamente surreale e carica di tanti puliti dettagli dal tono british.
Secondo la disposizione della sala, lo spettatore dalla sua seduta muove continuamente il capo e gli occhi volgendosi verso l’attore che prende la parola, ma anche semplicemente in contemplazione del bell’apparato scenico.
Matteo Traverso è il protagonista narratore, alter ego dell’autore, che declama e batte sulla macchina da scrivere la storia del dimezzato zio Medardo di Terralba, per poi incarnarne la parte (o le parti) incorniciato nell’alto quadro della libreria del salotto, come un Dorian Gray dai due profili, il destro per il lato gramo, il sinistro per la parte buona, che giunge addirittura al duello contro le sue due stesse parti, fino alla ricongiunzione finale, con metà volto sorridente e metà ghignante.
Visivamente pieno e strutturato, gentile e piacevole come un film di Wes Anderson, il Visconte di Emanuele Conte colpisce per originalità, delicatezza, colore, gusto.
PAGINA
Ci si sposta presso il Luzzati Lab, capannone ex industriale di Vico San Donato a spiovente tutto legno, ferro e vetrate, e si prende posto davanti ad una grande struttura bianca inclinata: maxi oggetto scenico stilizzato e praticabile, simmetrico e scosceso. E’ un libro aperto con le facciate bianche la scena di “Pagina”, il testo scritto da Riccardo Baudino e Giovanni Ortoleva su ispirazione da “Il cavaliere inesistente” e diretto dal regista fiorentino.
La scelta operata, drammaturgicamente parlando, è quella di ribaltare il testo e di estrarne il personaggio di Suor Teodora, narratrice alter ego di Calvino, costantemente intenta a scrivere la storia delle vicende del romanzo, come in un atto di purga perenne dell’anima, dall’alto della finestra di un monastero di clausura. Con questo escamotage, Ortoleva e Baudino scrivono e ricamano un episodio originale, nuovo e visionario, con potenti parole allucinate, pur restando fedelissimi a quelle (poche) pagine calviniane che tratteggiano l’essere e l’agire di Suor Teodora.
Una straordinaria Valentina Picello – intima, trasognata, appassionata e disturbante – in veste tonacale nera, con tanto di soggolo e manto da testa, scivola sulle scoscese pagine aperte, striscia orizzontale, si stende contorta, siede e si arrampica come un insetto o una larva sul libro, scorre nera sulla pagina come l’inchiostro. Osserva, scrive, legge, cancella senza penna né calamaio, solo accennando con la testa e gli azzurrissimi occhi il movimento della scrittura, creando una calligrafia astratta e invisibile – eppure chiaramente tangibile – fatta di parole, azioni, di un gran bel recitare. Le parole sono affilate, graffianti, ripetute, giocate, efficaci perché appoggiate su un prato sonoro (di Pietro Guarracino) che unisce le distorsioni elettriche hitech al canto delle voci da coro gregoriano, a creare un mood allucinato e ben definito, come la scena in generale, allo stesso tempo rigida, austera, anticonfomista, colorata, punk, sovversiva.
Su un minimalismo così spiccatamente marcato, il cui tranello potrebbe precludere ad ogni tipo di svolta, Ortoleva riesce a ingenerare, con invisibile mano sapiente, un’infilata di immagini, di vicende oniriche, di dissociazioni di personalità, di spostamenti di focus dal soggetto all’oggetto, di uscite e di entrate nel personaggio, una kafkiana metamorfosi in cavalletta, una morte, duelli, una danza della guerra, un bacio (e molto altro), sotto l’egida dell’astrazione totale, in meno di trenta minuti, veloce, potente, inatteso, preciso e deciso come il graffio profondo di un predatore.
IL BARONE
Il capitolo conclusivo di questo trittico si svolge nella grande Sala Trionfo, allestita al contrario: il pubblico si siede sul palco mentre la scena è agita nella platea, adibita a bosco stilizzato di assi di legno, passerelle, carrucole, corde, altalene. Il ribaltamento degli spazi convenzionali è sempre molto divertente, specialmente in questo caso perché la grande sala (500 posti) è quasi completamente allestita dalle scenografie (sempre di Conte e Ferrando), pertanto ci sono tante cose da guardare e esplorare con l’occhio.
Il suono della natura è costante, sembra di udire il fruscio delle fronde, il fischio degli uccelli selvatici, il pulsante e incantato ronzio del bosco. È il Barone Rampante secondo Laura Sicignano, interpretato dal ruspante Alessio Zirulia, che si cimenta in un lungo monologo che percorre l’intera vicenda di Cosimo di Rondò, che il 15 giugno 1767 decide di salire sugli alberi senza mai scenderne per tutta la sua esistenza.
Quello proposto da Sicignano è un Cosimo che corre veloce sugli alberi e sulle passatoie come un Peter Pan sulla barca di Capitan Uncino, puerilmente sfacciato, sognatore, controcorrente, bambino poi uomo, che rimane incastrato nella sua fanciullezza, libero di arrampicarsi fino alle foreste polacche e felicemente coerente alla sua scelta. Ma soprattutto è un barone innamorato. Molta attenzione viene infatti data alla storia d’amore con la sfuggente e viziata Viola, nei dialoghi a due che Zirulia interpreta con grande effetto, un leggero cambio di tono verso l’alto per Viola, una piccola esitazione per anticipare la presa di parola di Cosimo: i dialoghi/monologhi tra i due bimbi poi giovani adulti innamorati sono cristallini, chiari, veri e innocenti come pronunciati dalle bocche di un ragazzino, un filtro di dolce naïveté che calza perfettamente con l’interpretazione dell’attore.
Si avvicendano, passando nei vari luoghi deputati come nel teatro medievale, tutte le vicende del romanzo, fra tutte sottolineiamo l’impiccagione del brigante Gian dei Brughi, realizzata con il solo issarsi di un cappio, e la struggente morte della madre, che Cosimo raggiunge virtualmente e bacia dal suo albero, soffiandole un’ultima bolla di sapone dentro la finestra verso il capezzale del letto di morte.
E poi il finale a sorpresa, la morte del Barone che sfida la natura e la gravità perseverando, finanche dopo la morte, la sua astinenza dal terreno.
Concludendo, e giocando con i numeri, “I nostri antenati – trittico calviniano” è un’esperienza, o meglio tre esperienze, uno spettacolo a tre teste, come un cerbero gentile e favoloso, che propone uno sguardo triplice nel grande lavoro di Calvino, un’occasione (anzi tre) per misurare anche il nostro stesso sguardo di spettatori secondo tre punti di vista suggeriti da altrettanti registi, con tre diversi approcci al testo, alla scrittura e alla scena, ad offrirci uno spunto triadico – dimezzato, rampante, inesistente – dello scrittore sanremese, dello stesso Teatro della Tosse e degli autori coinvolti nella produzione.
PROLOGO
testo e regia Emanuele Conte
costume Danièle Sulewic
con Enrico Campanati
MAL VISCONTE MEZZO GAUDIO
Testo e regia Emanuele Conte
con Pietro Fabbri, Antonella Loliva, Matteo Traverso
scene Emanuele Conte, Luigi Ferrando
Luci Matteo Selis
disegni animati Paolo Bonfiglio
costumi Danièle Sulewic
Assistente alla regia Alessio Aronne
PAGINA
di Riccardo Baudino e Giovanni Ortoleva
drammaturgia e regia Giovanni Ortoleva
con Valentina Picello
scene Emanuele Conte, Luigi Ferrando
musiche Pietro Guarracino
luci Davide Bellavia
costume Daniela De Blasio
movimenti di scena Anna Manella
IL BARONE
regia e adattamento Laura Sicignano
con Alessio Zirulia
scene Emanuele Conte, Luigi Ferrando
movimenti di scena Piera Pavanello
luci e sonorizzazione Luca Serra
costume Daniela De Blasio
attrezzeria ed elementi scenici Renza Tarantino
produzione in collaborazione con Teatro Cargo
Durata: 2 h 10’
Visti a Genova, Teatro della Tosse, il 15 novembre 2023
Anteprima nazionale