Candoco Dance Company: la danza oltre le apparenze

La Candoco Dance Company al Cervantino (photo: Federica Frillici)
La Candoco Dance Company al Cervantino (photo: Federica Frillici)

La scienza è condannata a sottomettersi al potere e a rinunciare al servizio prestato all’umanità?
E’ la domanda che fa eco nella galassia delineata dallo spettacolo “Galielo o la abolicion del cielo”, tra gli spettacoli presentati nella giornata conclusiva del festival messicano Cervantino 2015.

La compagnia Puño de Tierra del regista Fernando Bonilla lancia questa provocazione, rivolta a grandi e piccini, ché inizino anche loro a prendere coscienza di quello che potranno presto perdere, non ultimo quello stupore di cui ci ha parlato Marcello Magni, testimoniando per noi su “The valley of astonishment” di Peter Brook in un Cervantino quest’anno carico di nobili motivazioni: prima fra tutte stringere di nuovo, in un abbraccio fraterno e indissolubile, scienza e arte; ragione e sentimento, tanto per citare Jane Austen.

Ed è proprio dalla terra di Albione – da quella terra di angeli soprannominata così dagli antichi romani che, arrivati da quelle parti sotto periodo di conquista e vedendo per lo più persone glabre e dai colori rossodorati, si erano prefigurati di esser arrivati in Paradiso… – che arriva la Candoco Dance Company.

Inglese di nome e di base operativa, la compagnia dimostra, nel corso di “Let’s About Dis”, d’essere un corpo posseduto da anime dalla molteplice nazionalità: inglese, francese, statunitense…
Ma non è solo per la varietà delle provenienze schierate sul palco che questo spettacolo rimarrà memorabile.

Megan Armishaw, Joel Brown, Tanja Erhart, Adam Gain, Andrew Graham, Laura Patay, Toke Broni Strandby, oltre ad essere danzatori e attori, in una parola interpreti, capaci di un impressionante controllo del corpo e di danzare in dialogo con gli altri e lo spazio che li circonda, hanno qualcosa in più; per i maligni, “che hanno già visto tutto”, qualcosa in meno.

“Let’s About Dis”: parliamone, tanto per fare la traduzione di quello che per un’ora e venti minuti non sarà solo uno spettacolo. Per mano dei coreografi Alexander Whitley e Hetain Patel, quest’ultimo anche artista concettuale e performativo, si delinea un mondo che si apre sorprendente alla platea variegata che occupa le tante file dell’auditorio. Come crea meraviglia sentire il vociare partecipe che proviene da una parte della sala: è una piccola folla di bambini, portati ad assistere a qualcosa che avrà finalità ben più che educative, quasi esistenziali…

Partono le musiche del tedesco Nils Frahm, miscelate da Machinefabriek, alias Rutger Zuydervelt, nomi che pesano nel panorama musicale contemporaneo, dove la musica da camera/orchestra incontra l’elettronica. E iniziano quei tagli di colore che saranno capaci, per tutta la durata della prima parte, di creare spazi d’ombra e luce, scolpendo i corpi dei sette, e di ciò che ormai da tempo – per alcuni da sempre – fa parte indissolubile di loro.

Perché dei sette che ballano, dialogano tra di loro e ci portano lassù sul palco, quattro si muovono uno su una sedia a rotelle, una su stampelle, mentre a due manca una parte dell’avambraccio.
Eppure danzano, ci stupiscono e ci emozionano. E non per eccesso di buonismo; ma perché sono dannatamente bravi, e per una volta questa parola non è usata a sproposito.

C’è un momento dei tanti che rimarrà per sempre: lei, con le stampelle impugnate, danza sola verso una parete che grigia, come un abisso, s’innalza di fronte a noi. La percorre e si lascia andare su di essa, si affida abbandonando i sostegni. Rimane dritta di fronte a noi, fiera, sulla sola gamba che la sostiene, per lasciarsi poi andare. Dietro di lei la parete prende vita, le mani e i corpi degli altri sei fanno sentire la loro presenza, conducendola a proseguire la sua danza, la sua personale lotta contro i limiti.

Inevitabili, alla fine di questo primo tempo coinvolgente, con le coreografie di Whitley create appositamente per il Cervantino, scattano gli applausi convinti del pubblico.

È accolto da un respiro profondo quello che arriva dopo una breve pausa, nato nel 2014 per mano del geniale Hetain Patel, il cui testo è sorto dal lavoro combinato di Patel e della compagnia, che vede alla drammaturgia Eva Martinez.

I sette si sono cambiati, non hanno più i loro vestiti di scena, d’oro, rosso e nero. Sono vestiti normalmente, come semplici ragazzi quali sono. Seduti di fronte a noi, a fondo sala, a fasi alterne si alzano, uno, a coppia, in tre, tutt’insieme, e parlano.
Parlano della loro omosessualità, parlano di sesso, di differenze religiose, della loro discapacità, di quello che non dovrebbe essere guardato come diversità, mostruosità, o meglio non con l’accezione che ha acquisito la parola latina mostrum, che un tempo voleva dire meraviglia.
Parlano e ti sbattono in faccia la piccolezza, a cui può arrivare il genere umano, quando osserva da giudice e giuria l’altro da sé, quando non rispetta i canoni di bellezza e appartenenza alla normalità, in cui si è rifugiata mestamente l’umanità.

A un certo punto, in tre si alzano e si posizionano davanti a noi, ognuno parlando una lingua diversa: francese (non sottotitolato), inglese (sottotitolato in spagnolo), alfabeto muto. Raccontano, o meglio interpretano, la stessa storia, con esiti esilaranti e allo stesso tempo sconcertanti.

Si ride di gusto, ma si rimane anche felicemente frastornati e sorpresi da quello che avviene sul palco: la Candoco Dance Company ci pennella l’incomunicabilità in cui può ricadere, accartocciata su sé stessa, la società contemporanea. I suoi tanti punti di vista, che dovrebbero essere valore aggiunto, bellezza di questo mondo, sono trasformati, nella società della globalizzazione, in un’arma a doppio taglio, con le molteplici interpretazioni, e presunzioni, che ricadono a cascata, creando abissi di distanze insormontabili.

Le apparenze ingannano. Ma rovesciando la prospettiva di diversità, proiettandoci nel dibattito a recuperare queste distanze, allontanando i fantasmi delle menomazioni, i sette protagonisti ci fanno volare altrove, mostrandoci la loro totale aderenza alla vita, la loro “normalità”, o meglio… che nulla c’è di normale. E il ‘mostrum’ torna per quello che deve essere: meraviglia, stupore. Umana ambizione a superare i propri limiti.

Let’s About Dis
Prima Parte:
Coreografia: Alexander Whitley
Disegno luci: Jackie Shemesh
Vestiti di scena: Jean-Marc Puissant
Musica: Nils Frahm, miscelata da Machinefabriek, alias Rurger Zuydervelt

Seconda parte:
Idea, Coreografia e Direzione: Hetain Patel
Testo: Hetain Patel con la Compagnia
Drammaturgia: Eva Martinez
Interpreti, danzatori, attori: Megan Armishaw, Joel Brown, Tanja Erhart, Adam Gain, Andrew Graham, Laura Patay, Toke Broni Strandby

durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 5

Visto a Guanajuato (México), Auditorio del Estado, l’11 ottobre 2015

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