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Capatosta. Il conflitto generazionale di Colella tra i fumi dell’Ilva

Colella e Simonetti in Capatosta

Colella e Simonetti in Capatosta (photo: Marco Caselli Nirmal)

Quanto c’è di reale, imponente e tremendo in quelle ciminiere che sbuffano sopra ‘u stabiliment dell’Ilva, sterminata industria che domina Taranto con i suoi fumi bianchi e grigi, e i suoi miasmi mortiferi?

“Capatosta”, spettacolo di Crest Teatro approdato a Campo Teatrale a Milano, è una metafora della città di Taranto. Vincitore del premio Storie di Lavoro 2015, scritto da Gaetano Colella, regia di Enrico Messina, con Colella e Andrea Simonetti in scena, “Capatosta” racconta il più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Un’area sterminata, due volte la città di Taranto. E stiamo parlando di un capoluogo di 200mila abitanti.

La scena dello spettacolo è tetra ed essenziale: tavolino, due armadietti, una coperta, un casco. Una poltrona girevole. L’Ilva, microcosmo e universo, eterno conflitto tra vita e morte, si tinge di colori foschi. Impone ai suoi lavoratori e all’intera comunità un’alternativa brutale: il lavoro o la salute; veleni e tumori, oppure la fame.

Ombre, gru, tralicci, carroponti. Siamo nell’acciaieria 1, reparto RH. La temperatura raggiunge i 1600 gradi centigradi. L’acciaio fuso borbotta verso la colata. Eppure il lavoro dell’uomo, immerso nelle tenebre e nelle fiamme dell’industria pesante, qui rimane sullo sfondo, senza particolari esplicitazioni. È un tempo che sembra languire, tra metallo liquefatto e lamine tuonanti, stantuffi e miscele, crepitii di fiamme e lapilli nella fornace.
Amplificati o distillati, i suoni creano una sinfonia aliena. È uno straniante pingpong di stati emotivi. Paradossi dell’arte, di un orrendo colosso artificiale che trasfigura un luogo di lavoro in spazio per l’interiorità.

Gaetano e Adalberto sono due operai costretti a lavorare gomito a gomito. Il primo è un uomo robusto che viaggia verso la pensione. Ha all’attivo vent’anni di servizio. Ha il carattere spigoloso di chi bada al sodo. Mira a consolidare il proprio avanzamento economico e sociale. È disposto ai compromessi. Ha perduto ogni slancio idealistico. Accento tarantino marcato, Gaetano prova ad assoggettare Adalberto, ultimo arrivato, con la propria voce stridula. Usa la gestualità esasperata e la comunicazione urlata di chi è abituato a ricevere e dare ordini da lontano, soverchiando i rumori della fabbrica.

Adalberto è una matricola di 25 anni, laurea in economia in tasca, idee di rivolta in testa. Adalberto, e il ricordo di suo padre. Che in quella fabbrica si è consumato la vita.
“Capatosta” è una metafora della città di Taranto, di ogni luogo di lavoro dove la fronte ha il sudore e il ghigno di chi muore. È poesia e acciaio, produttività, malattia, riscatto e rancore. “Capatosta” è identico alla città, ai suoi eterni rossi tramonti, ardenti e angosciosi.

Comicità e dramma. Tra buffi balli frenetici di uomini come ingranaggi e grida tra l’isterico e il surreale, si sedimenta una storia di malattie e funerali. “Capatosta” è conflitto generazionale, dialettica tra diritto e opportunismo, illusione e cinismo. Volano caschi, schiaffi, parole. Emerge uno slancio distruttivo puro, rabbioso e impotente.

L’Ilva entra nell’anima come polvere sottile. Con un senso di castrazione di fronte a una realtà immutabile, a un destino perverso. Ai due estremi della stessa rassegnazione s’incontrano due esseri in conflitto.
Un teatro civile e sofferto. Impegnato senza essere ideologico, sociale senza essere rivoluzionario. La coscienza di classe cede alla coscienza del cuore, emblema di una città lacerata, incredula, incapace di decidere. Bravi gli attori, capaci di interiorizzare la mentalità di chi si è adattato alle brutture e si cura solo del proprio mondo angusto; o di chi, immobile nel risentimento, conosce la protesta solo come atto di distruzione tanto iperbolica quanto velleitaria.
 
CAPATOSTA
scritto da Gaetano Colella
regia Enrico Messina
con Gaetano Colella e Andrea Simonetti
composizione sonora Mirko Lodedo
scene Massimo Staich
disegno luci Fausto Bonvini
datore luci Vito Marra
foto di scena Marco Caselli Nirmal
in collaborazione con Armamaxa teatro

durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 2’ 30”

Visto a Milano, Campo Teatrale, il 14 gennaio 2016

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