I personaggi che popolano le pièce dell’autrice e regista palermitana conducono esistenze dure e terribili, votate alla rassegnazione ma, nello stesso tempo, commuovono e strappano un sorriso per la loro capacità di affrontare contraddizioni e sfacelo con lo spirito leggero e la poesia di chi, probabilmente, non ha più nulla da perdere. Il lettore (e lo spettatore dei suoi allestimenti) è ospite privilegiato, un invitato di riguardo a cui mostrare rispetto ed implorare indulgenza poiché, all’interno delle creazioni della Dante, sono i segreti più indicibili ad emergere, ad essere svelati e ‘taliàti‘ da tutti.
Potremmo individuare tre cardini e meriti fondamentali nella verità che contraddistingue il teatro di Emma Dante. Se il primo è rappresentato dalla famiglia e dai legami parentali, il secondo passa attraverso il dialetto, quella parlata siciliana (integrata da numerose note di traduzione a piè di pagina) che secondo Andrea Camilleri, autore di una godibile e preziosissima prefazione al volume, “…non solo nasce coi personaggi stessi, ma senza di essa i personaggi non esisterebbero, essa è la necessità assoluta, identificante del loro vivere scenico.” E poi c’è l’attesa, elemento preponderante non solo della drammaturgia di Emma Dante ma ricorrente in tanti capolavori del Novecento. I personaggi di mPalermu, Carnezzeria e Vita mia (come anche quelli di Mischelle di Sant’Oliva) il tempo lo lasciano trascorrere aspettando che qualcosa accada o qualcuno arrivi, ma non è che un pretesto per non agire e riesumare ricordi, malumori e dissidi.
La trilogia si apre con mPalermu, Premio Scenario nel 1999 e Premio Ubu nel 2001 come miglior novità italiana, dove rituali e ruggini della famiglia Carollo, schierata tutta in fila a preparare un’uscita domenicale che non avverrà mai, sono la metafora di una città incapace di vivere. “…A Palermo non si compiono azioni, si mettono in scena cerimonie…“.
In Carnezzeria, unico fra i tre testi ad usare la lingua italiana e nuovo Premio Ubu nel 2003, si attende l’arrivo di un fantomatico fidanzato, padre del bambino che Nina “la scimunita” si porta in grembo. Anche in questo caso si tratta di un nucleo familiare dai trascorsi violenti, modellato sui soprusi ed afflitto da un presente altrettanto disperato dove i tre fratelli di Nina, ereditando dal padre il ruolo di carnefici, fanno della sorella idiota lo sfogo delle loro morbose pulsioni. Un desolante quadretto di famiglia che Nina descrive a questo modo: “Io e Paride dormiamo nello stesso letto. Nel letto matrimoniale, quello dei miei genitori.Ogni tanto pure Ignazio e Toruccio
ci vengono a trovare. Dormiamo tutti insieme.”
Vita mia si colloca nell’ambito di una ritualità superstiziosa dove il pubblico, assiepato attorno ad un letto come in occasione di un lutto, assisterà al tormento di una madre condannata a veder morire uno dei suoi tre figli.
“Vita mia è una veglia“, spiega Emma Dante nelle note al testo. Quel letto, che finirà per ospitare l’ennesima unione incestuosa, “è una nave di pietra e quella stanza è il mare che ci risucchia e sparisce“.
Da parte nostra, lettori, spettatori e intrusi di questi tre piccoli e strazianti capolavori del teatro contemporaneo, non può esistere giudizio morale nei confronti dei protagonisti. Alla fine viene quasi da accomunarli tutti, indistintamente, in un unico, grande e morboso abbraccio unificante.