Buio pesto. Una schiena nuda che si abbraccia, una musica assordante, un urlo disperato.
Così si presenta Fosco, abitante unico e solo di “Cartoline da casa mia”, andato in scena a Napoli al Nouveau Théâtre de Poche, piccolo teatro dal grande fermento culturale diretto da Massimo De Matteo, Sergio Di Paola e Peppe Miale.
Fosco è un hikikimori, termine giapponese che indica persone che volutamente si isolano dal mondo esterno restando chiuse nelle loro case per giorni, mesi, anni. Alcune per tutta la vita. Eppure, vivono. Vivono nella loro solitudine, dimenticandosi di cosa c’è oltre le mura. Persone fragili non compatibili con la sofferenza generata dall’essere al mondo.
Se il mondo è questo, se tutto è effimero e illusorio, se la società preme per farci essere come non siamo, se fuori da quella stanza non c’è nulla di meglio, che motivo c’è di uscire fuori?
In Giappone sono oltre 500.000 i casi di hikikimori accertati, in Italia 100.000 anche se non se ne sente ancora parlare molto.
Fosco potrebbe vivere ovunque, anche in casa nostra. Dopotutto ha bisogno solo di una stanza, il suo mondo è tutto lì dentro. Probabilmente vittima di violenza sessuale da parte del gemello – forse morto – in età puerile, il suo unico sbocco sul mondo è una piccola finestra sempre chiusa, ed un passavivande da dove gli arriva cibo e acqua per lavarsi.
Uno psicologo sembra parlargli al di là della porta, ma solo Fosco può sentirlo, in un botta e risposta solitario, forse immaginario. Piccole cartoline ingiallite un po’ sbiadite gli ricordano l’infanzia, caratterizzata dal non-amore della madre e del padre.
Urla, si ribella, canta, balla, piange e ride da solo, in quella stanza, nel claustrofobico buio del nulla che lo circonda. Ma Fosco è coraggioso, è forte ed anche bello. Lui sa di essere solo, volutamente evita ogni contatto col mondo reale perché quel mondo lo ha rifiutato, rigettato. Deriso e schernito per tutta la vita, umiliato da una società che lo vorrebbe diverso, nella sua stanza si sente protetto e compreso. Uscire significherebbe affrontare un mondo che non sembra volerlo.
Viene da chiedersi in cosa differisce Fosco da coloro che racchiudono e rinchiudono la loro vita nel mondo virtuale. Nel linguaggio informatico virtuale significa “simulato”, “non reale”. In un mondo, il nostro, dove la priorità è apparire, dove persino il sesso può essere fatto attraverso i bytes, quanto realmente siamo lontani dall’isolamento di Fosco? Molto meno di quanto crediamo, e molto più inconsapevolmente. Sembra infatti che una delle principali cause di esplosione della problematica degli hikikimori sia proprio il virtuale: credere di poter avere contatto con la realtà attraverso uno schermo rende invisibile ciò che dovremmo vedere, distorce le emozioni tra gli esseri umani.
Ray Bradbury negli anni ’50 con la sua “Happiness Machine” aveva già capito il meccanismo distruttivo a cui saremmo andati incontro, immaginando una macchina ideale in grado di produrre felicità a chi vi entrasse, che però nel venirne fuori generava la più grande infelicità: uscire dalla finzione ed affrontare la “vita vera”.
Fanno riflettere i 45 minuti di monologo del bravo Bruno Petrosino, qui con la regia di Marco Prato, sul temerario testo di Antonio Mocciola, che abbiamo incontrato.
Antonio, da cosa nasce l’esigenza di scrivere e affrontare l’argomento hikikimori?
Mi affascina, e allo stesso tempo mi terrorizza, il fatto che ci siano persone, soprattutto giovani, che si sfilano dalla società, sotterrandosi vivi in camere quasi iperbariche. Sono scelte radicali, veri e propri “suicidi” senza esito mortale, che però tengono sulla corda tutti quelli che vogliono bene a questi ragazzi. Perché va detto che gli hikikimori (che in giapponese vuol dire “isolarsi”) sono giovani dai 16 ai 30 anni, che vivono in famiglia, e dalla quale dipendono. Per lo più maschi. In “Cartoline da casa mia” ho immaginato la storia di uno di loro. Senza giudicare.
Quanto credi sia diffuso questo fenomeno nel mondo occidentale?
Lo sta diventando sempre di più. Il fenomeno è nato in Giappone, società estremamente competitiva sul piano del lavoro, molto meno sui rapporti personali. Il fallimento nel primo campo è ritenuto intollerabile, specie per un uomo. Mentre famiglie disfunzionali sono percepite come la norma. Da noi è nata un’associazione apposita, segno che la questione è presente e va affrontata. Anche, perché no, con spettacoli teatrali come il mio, che Marco Prato ha saputo dirigere con gusto e aderendo perfettamente al mio coté più allucinato. Perché il mondo di un hikikimori è un po’ psichedelico, in fondo.
Il personaggio di Fosco credi rappresenti una condizione umana al di là del fenomeno hikikomori?
Si, la sua è una condizione umana, credo sempre esistita. Tant’è vero che il mio personaggio, splendidamente interpretato da Bruno Petrosino, che non a caso non indossa abiti, non ha alcuna collocazione temporale. Non è, come invece gran parte degli hikikimori, sempre “connesso” alla rete. Lui scrive cartoline, un atteggiamento démodé. Quindi, forse, viene da un’altra epoca. Chi di noi non ha pensato almeno una volta di tagliare i ponti col mondo? La differenza con gli eremiti è che mentre questi ultimi bastavano a sé stessi, Fosco (e gli hikikimori) senza famiglia morirebbero di stenti. O forse uscirebbero, finalmente, di casa.
Quale potrebbe essere la “salvezza” per Fosco?
Il vero taglio netto con chi lo alimenta. Costretto a sopravvivere, Fosco dovrebbe per forza uscire di casa, per risolvere davvero i conflitti col suo passato. Ma anche il suo compiangersi, la rabbia sterile, fanno parte del suo narcisismo patologico. “Gli altri” lo hanno costretto ad entrare in una stanza, o ad uscire dalla vita, che poi è la stessa identica cosa.
Lo spettacolo sarà a Roma il 14 e 15 marzo al Mondrian Suite e il 17, 18 e 19 marzo alla Cappella Orsini.
CARTOLINE DA CASA MIA
di Antonio Mocciola
con Bruno Petrosino
regia Marco Prato
v. m. 18 anni
durata: 45′
Visto a Napoli, Nouveau Théâtre de Poche, il 24 febbraio 2019