In scena all’Argentina di Roma il nuovo spettacolo dell’autore, attore e regista portoghese, da questa edizione direttore del Festival d’Avignon per i prossimi 4 anni
I primi attimi di “Catarina e a beleza de matar fascistas” di Tiago Rodrigues (nominato direttore artistico del Festival d’Avignon nel 2021), andato in scena all’Argentina di Roma, sono un assestamento di luci (di Nuno Meira) e cieli, un mettere a fuoco ora il fuori ora il dentro di una piccola casa di campagna ricostruita da Fernando Ribeiro, un restituirne la prospettiva in scena.
È la casa in cui una famiglia da decenni si riunisce, una volta l’anno, per celebrare una ricorrenza inaugurata dalla bisnonna, non un pacifico anniversario ma una vera e propria forma periferica di lotta armata: ammazzare un fascista, scelto preferibilmente tra quelli che si siano, in qualche modo, macchiati di un delitto contro le donne.
Ogni partecipante al tradizionale incontro (una madre con due figlie, due uomini suoi fratelli, un terzo più anziano, con il figlio), in quell’occasione dismette il proprio nome, tutti si chiamano Catarina, come la bisavola, tutti indossano una lunga gonna scura per significare il loro essere femmine.
Come si porti il pubblico a conoscenza di questi fatti pertiene la normale – ma non per questo meno curata – gestione di contenuti all’interno di un testo teatrale: il progressivo svelamento delle contingenze attraverso allusioni sempre più inequivocabili, la lettura della lettera-testamento della prima Catarina.
Ciò che fa del lavoro quasi un miracolo di drammaturgia e regia è invece quanto esso produce successivamente sul pubblico, attraverso appunto questi strumenti, la scelta e la competenza di portare a compimento il coinvolgimento più diretto, quello squisitamente critico – non a caso, seppur ironicamente, il nome di Brecht è evocato più volte.
Cosa accade: la più giovane delle due figlie (Beatriz Maia, Catarina anche lei) ha rapito il leader di un partito di destra che, vincitore alle elezioni, è prossimo a cambiare la Costituzione in senso totalitario. Quest’anno è il turno della ragazza di far fuoco e ammazzare. Sarà la sua prima volta, e tutti sono pronti a celebrare questo rito di passaggio con trionfi, incoraggiamenti e celebrazioni; lei è percorsa da una corrente di energia distruttiva, canta inni rivoluzionari, ha i capelli legati stretti, l’obiettivo è davanti a lei, armeggia spavalda con la rivoltella.
Ma sul più bello qualcosa va storto.
Tanto per cominciare, quasi come fosse l’indizio di un atto mancato, Catarina ha dimenticato di sottrarre e distruggere il cellulare del condannato, come sarebbe prassi. E poco dopo, al momento dell’esecuzione, stende le braccia ma il grilletto non riesce a tirarlo, qualcosa in lei si inceppa.
Respiriamo. In questa che sembra una allegra ma ben stramba, inquietante combriccola, finalmente qualcuno si fa portavoce delle nostre spontanee istanze di pubblico perplesso. Rompe in scena l’armatura di certezze ereditate da una tetra prassi con un dubbio assai legittimo, un dubbio nuovo però per la famiglia, tanto indurita nelle proprie certezze da precludersi il minimo spiraglio di penetrazione: cioè che sia forse sbagliato agire con la violenza contro la violenza, che sia inutile e forse disumano, e che alle falsità occorra rispondere con la verità e non con la morte. Che esista insomma tutta un’altra sponda della lotta politica, quella del “lavoro dal basso”, sulle persone, nell’istruzione e nell’assistenza, un lavoro culturale che esca dalla prospettiva dell’urgenza partigiana, dell’infantilismo estremista.
Quanti fra noi in platea si sono affrettati a riconoscersi in questa posizione? La tetra favola degli ammazzafascisti in gonnella, quasi una bislacca famiglia Addams in posa dietro “Soffia il vento”, con “Bella ciao” come suoneria del cellulare, è riportata nei suoi giusti confini di pericolosa bizzarria, confutata insomma.
Eppure, subito dopo ci scontriamo con un altro dubbio: sono davvero convincenti gli argomenti della giovane? Colpo su colpo le altre Catarine le rispondono, ciascuna dalla propria prospettiva di personaggi particolari (Rodrigues non si accontenta di figure stilizzate), riescono a ribattere efficacemente al buon senso della giovane degenere: raramente le risposte sono meno efficaci delle questioni.
Le due istanze si fronteggiano e sembrano assestarsi, se pur ostaggio degli inevitabili legacci psicologici che germogliano in una famiglia, su un equilibrio impotente. Il dubbio divide, e non si tratta di un dubbio che già contenga in sé la sintesi risolutiva. È un dubbio incapace di pacificarsi che, se divide in scena, in platea non opera diversamente: le parole scorrono a migliaia, e più la ferita si scava all’interno della famiglia, più siamo costretti a straziarci anche noi.
Che ci tocchi riprendere in considerazione l’opzione della lotta armata? Che tutti questi anni di pratica non-violenta, di evoluzione nella lotta politica a sinistra abbiano significato solamente una progressiva perdita di mordente, ben prevista da un “sistema” che spesso agisce con una brutalità sopra le righe, ma al quale ci facciamo un punto d’onore di rispondere con azioni legali, democraticamente certificate?
Ma d’altra parte, cos’è questa pietà che ci pone, in definitiva, in una condizione di perdenti, che continua a rimandare sine die il realizzarsi del “sol dell’avvenire”?
Tiago Rodrigues ci sta forse mettendo davanti agli occhi l’accettabilità, addirittura la necessità della violenza? “Catarina e a beleza de matar fascistas” è dunque quest’opera violenta e incendiaria? Il dubbio è il dubbio della cosa, ma è anche il dubbio dell’interpretazione.
Nel finale, all’ennesimo rifiuto della giovane di far fuoco, uno dopo l’altro, colpiti da proiettili la cui provenienza è ignota, cadono i componenti della famiglia, e il prigioniero, unico superstite, ravviato il nodo della cravatta, si produce in un fluviale discorso demagogico e fascistoide. Quando alla fine di questa irrisolta dialettica tra lotte (che ha risparmiato però l’avversario vero) ci troviamo sommersi nell’indigeribile sermone, posto in scena come una vera macchina di tortura per il pubblico, il quale, dopo diversi minuti di sopportazione, sbuffa e si solleva contro il personaggio e ciò che esso rappresenta, ecco, allora sarà forse capitato a qualcuno di sentire forte in sé l’esigenza di sentir detonare nuovamente un caricatore.
Così questo lavoro non è più solo la tragedia di cosa fare e cosa evitare di fare nella lotta politica contro i totalitarismi. La tragedia che Rodrigues ci mette davanti è quella del discorso politico, ora delle parole programmate per suscitare un’azione, per essere azione; ora di quelle che, al contrario, eludono il confronto e si ergono sopra uno scranno ributtante, che non ammette contestazioni. Le sfide dialettiche della giovane Catarina con tutte le altre della sua famiglia sono tenzoni che si risolvono nel nulla, che si ritorcono su sé stesse, che portano come in un accumulo senza scarico alla progressiva fulminazione di tutti i membri della famiglia, in una scena che è la versione alla Ionesco dello stallo messicano nelle Iene tarantiniane, in cui a tenere i personaggi sotto scacco è la propria minorità nei confronti del tritacarne dei fatti, della contemporaneità assertiva delle cose.
La tragedia di Catarina è insomma quella delle parole, della loro impotenza da un lato, della loro violenza dall’altro; la tragedia della parola traviata. È uno stimolo, spingendo lo sguardo appena un poco oltre l’ultimo buio, a recuperarne il valore di libertà.
Al Teatro Storchi di Modena il 28 e 29 aprile.
Catarina e a beleza de matar fascistas
testo e messinscena Tiago Rodrigues
con António Fonseca, Beatriz Maia, Carolina Passos Sousa, Isabel Abreu, Marco Mendonça, Pedro Gil, Romeu Costa, Rui M. Silva
produttori esecutivi Rita Forjaz, Pedro Pestana
produzione Teatro Nacional D. Maria II (Portugal)
co-produzione Wiener Festwochen, Emilia Romagna Teatro Fondazione (Modena), ThéâtredelaCité – CDN Toulouse Occitanie & Théâtre Garonne Scène européenne Toulouse, Festival d’Automne à Paris & Théâtre des Bouffes du Nord, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Comédie de Caen, Théâtre de Liège, Maison de la Culture d’Amiens, BIT Teatergarasjen (Bergen),
Le Trident – Scène-nationale de Cherbourg-en-Cotentin, Teatre Lliure (Barcelona), Centro Cultural Vila Flor (Guimarães), O Espaço do Tempo (Montemor-o-Novo)
spettacolo in portoghese con sovratitoli in italiano
durata: 2h 30’
applausi del pubblico: 2’ 45’’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 13 aprile 2022