Entrambi gli spettacoli vedono Brie impegnato solo come regista, mentre hanno per interpreti alcuni dei talentuosi attori incontrati in “Karamazov” e con cui l’artista si era impegnato a continuare a lavorare, secondo un progetto partito con “Indolore” e già annunciato a Klp in un’intervista del 2012.
Con “La Mite” Brie torna su Dostoevskij, scegliendo questa volta un racconto molto più semplice nella sua struttura e tuttavia capace di sviluppare i temi tipici del grande scrittore russo in modo enigmatico e complesso.
Ritroviamo così uomini divisi nell’opposizione tra il bene e il male, due entità la cui natura ontologica negli scritti di Dostoevskij continua ad oscillare misteriosamente da una dimensione puramente psicologica, quasi onirica, ad una mistica che non esclude invece l’esistenza più concreta di un divino. E al centro della “Mite” Dostoevskij pone proprio la sua difficoltà a sbilanciarsi su una soluzione piuttosto che sull’altra.
Protagonista del racconto è un uomo che, partendo dalla pretesa di poter manipolare a piacimento la realtà, pavoneggiandosi come novello Mefistofele nella spregiudicata esibizione del suo potere sugli uomini, scopre invece la difficoltà, forse l’impossibilità non già dell’onniscienza, ma persino di una stessa visione oggettiva della propria realtà. Il rapporto con la moglie, la “mite”, giovane sfortunata legata a una icona della Madonna, è tormentato da continue cadute nell’equivoco e diviene infine metafora dell’irriducibilità dell’ignoto da parte dell’uomo, che deve così accettare il dolore provocato dalla frustrante consapevolezza di non poter mai comprendere la realtà.
Una sorta di Faust rovesciato, dove il potere diabolico di Mefistofele è forse solo un autoinganno per dimenticare le umiliazioni subite dalla società, e dove l’anima tentata dal male si rivela contro ogni previsione una preda sfuggente, equivoca, imprevedibile e, in definitiva, tutt’altro che mite. Una riflessione sul mistero della spiritualità nell’uomo che nasconde, in verità, anche una polemica letteraria contro quegli scrittori che si limitano ad una visione semplicistica dell’uomo.
La messa in scena di questo testo contiene tutti gli elementi più noti dello stile di César Brie: pochi oggetti essenziali evocano tutti gli ambienti del racconto con una semplicità disarmante e allo stesso tempo ammirevole, mentre gli attori raccontano le relazioni tra i personaggi tramite il rapportarsi dei loro corpi in modo a volte anche geometrico.
Una regia elegante, quindi, capace di alcuni momenti di grande impatto sullo spettatore (tra tutti l’immagine della Mite alla finestra) e condotta con professionalità anche nel disegno luci, nelle musiche e nei costumi.
Nel complesso, tuttavia, il lavoro rischia di risultare poco coinvolgente. Un racconto tanto psicologico richiedeva forse un’indagine maggiore sui personaggi, resi invece con gesti e parole forse troppo puliti, quasi neutri, estetici più che vissuti.
Il taglio registico risulta troppo leggero, quasi non si volesse osare alcuna interpretazione del testo, limitandosi ad illustrarlo, aggiungendo così molto poco rispetto alla pagina scritta, carica invece di suggestioni e di contenuti complessi per i quali gli spettatori avrebbero magari gradito posizioni interpretative forti.
In “Orfeo e Euridice”, realizzato in collaborazione con la compagnia Eco di Fondo, César Brie dirige due intensi interpreti, Giacomo Ferraù e Giulia Viana, che scelgono di mettere in scena un tema controverso e di certo molto urgente nella società attuale: quello dell’eutanasia.
La narrazione parte da atmosfere molto quotidiane: due ragazzi si incontrano, si confrontano, si amano, vivono insieme. Poi un incidente stradale li divide, senza tuttavia separarli davvero: l’intervento tempestivo dei medici strappa la donna dalla morte, senza riuscire però a riportarla alla vita e condannandola quindi ad una dimensione sospesa in cui è difficile dire quanto si preservi la dignità dell’essere umano.
Al riguardo lo spettacolo prende una posizione molto netta, definendo i sette anni di coma della donna come una mera “umiliazione”: la si vede così letteralmente strappata alla morte con atti violenti che interpretano interventi chirurgici raccapriccianti, e ancora è mostrata come burattino inanimato maneggiato da chi si ostina a considerarla ancora un essere umano, quando la sua anima tenta altrove una nuova esistenza.
“Lasciami andare” è la supplica della donna al compagno, il quale è tuttavia messo nelle sue stesse condizioni di impotenza da una legge che basa le proprie decisioni su continue contraddizioni che in nessun modo sanno risolvere una questione tanto complessa, quanto urgente.
Su tutto questo si innesta il mito di Orfeo e Euridice, rievocato non a fini narrativi ma per contrapporre alla visione medica dell’uomo definito come corpo biologico, uno sguardo spirituale che non si limiti alla morale cattolica, ma che attinga dall’antichità un senso della sacralità della vita e della morte più esteso, condivisibile probabilmente anche da chi non creda in Dio, ma coltivi comunque una devozione verso i cicli stabiliti dalla natura, che forse troppo spesso oggi violiamo.
È questo probabilmente l’aspetto più interessante dello spettacolo: la capacità di una riflessione spirituale che evita il problema dei dibattiti religiosi e si appella a un senso della vita più ampio.
Tra scene che stigmatizzano ora con corrosiva ironia spietati comportamenti umani, ora con toccante drammaticità la sofferenza della vita quotidiana, si aprono così quadri surreali che tentano di rappresentare la dimensione sospesa in cui i protagonisti si muovono, come Orfeo ed Euridice, in quel lungo o breve cammino che collega e separa la realtà materiale da quella ignota in cui ci porta la morte, che forse non dovremmo lasciar giudicare dalla nostra paura.
Nonostante gli autori si schierino dunque con forza in favore dell’eutanasia, lo spettacolo ha il pregio di non appoggiarsi ad alcuna ideologia. Si parte infatti dalla prospettiva nuda di chi vive in concreto il dramma e si dà poi voce a entrambe le parti, attraverso personaggi non deformati da alcuna retorica.
Proprio questa assenza di enfasi e questa aderenza alla realtà rendono lo spettacolo particolarmente commovente. In sala gli spettatori entrano subito in empatia con i protagonisti, si emozionano con loro, piangono con loro con una intensità che raramente si riscontra in teatro. Merito di un testo che riesce ad evitare sapientemente tutte le trappole cui un tema tanto scottante può indurre.
Merito anche di una regia sobria ma coraggiosa, capace di trovare molte soluzioni simboliche d’efficacia anche per descrivere situazioni molto concrete. E merito infine di un’interpretazione lodevole da parte dei due attori, in grado di affrontare con bravura, realismo e sensibilità anche scene molto difficili. Particolarmente versatile soprattutto Giacomo Ferraù, che regala ora momenti di brillante umorismo, ora scene di vera partecipazione emotiva, dimostrandosi capace di caratterizzare personaggi diversi con realismo e naturalezza.
Uno spettacolo, quindi, caldamente consigliato a chi voglia partecipare ad un dibattito estremamente importante e delicato e a chi a teatro ama emozionarsi.
LA MITE
liberamente tratto dal racconto di Fëdor Dostoevskij
produzione: Teatro Presente
adattamento e regia: Cesar Brie
con Clelia Cicero e Daniele Cavone Felicioni
musiche originali: Pietro Traldi
durata: 1h
applausi del pubblico: 1’ 10’’
ORFEO ED EURIDICE
produzione: Teatro Presente e Eco di Fondo
testo e regia: Cèsar Brie
con Giacomo Ferraù e Giulia Viana
durata: 56′
applausi del pubblico: 2’
Visti a Milano, Campo Teatrale, il 2 febbraio 2014