Chi ha ucciso mio padre. Deflorian/Tagliarini nel ritratto d’un figlio orfano di padre e patria

Chi ha ucciso mio padre (photo: Luca Del Pia)
Chi ha ucciso mio padre (photo: Luca Del Pia)

Un desiderio di relazione irrisolto. Un dialogo vuoto. Reminiscenze kafkiane della “Lettera al padre”.
“Chi ha ucciso mio padre”, testo del francese Édouard Louis, che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini hanno portato all’Astra di Torino e poi a Triennale Milano Teatro dopo la ripresa post lockdown, è un racconto autobiografico crudo e disturbante.
Al centro, un giovane omosessuale (interpretato da Francesco Alberici, coautore dell’adattamento italiano) racconta con incedere psicologico, in ordine raffazzonato, il rapporto con suo padre dall’infanzia all’adolescenza, alla separazione dei genitori, fino all’infortunio sul lavoro che ha ridotto il padre in fin di vita.
I ricordi si affastellano e disegnano un legame pieno di contraddizioni. Momenti d’affetto, rigurgiti d’amore, si avvicendano a situazioni conflittuali che degenerano a tratti in violenza.
Un figlio mai pienamente accettato dal padre, che lo accusa di essere femmineo, in un ambiente provinciale che stigmatizza la diversità e svilisce la cultura. “Chi ha ucciso mio padre” è una storia d’identità e diritti negati. Le colpe dei genitori ricadono sui figli. Un rigido determinismo soffoca le libertà personali, mina i rapporti di coppia e deteriora l’armonia familiare.

Deflorian e Tagliarini sono artisti capaci come pochi di cogliere la complessità che si annida nei rapporti umani. Sanno scovare il sordido che si nasconde dietro il perbenismo borghese e la rispettabilità di facciata.
Qui il sordido è epidermicamente rappresentato da sacchi neri della spazzatura accatastati su una scena vuota e tenebrosa. I suoni sinistri creati da Emanuele Pontecorvo si sprigionano dalle viscere di uno spazio distopico, a malapena illuminato dalle fredde luci al neon che Giulia Pastore cala dall’alto come altalene. Ma quei sacchi, che pure alludono a un’umanità alla deriva, non contengono pattume, bensì i simboli di un passato che il protagonista (figlio, omosessuale, scrittore) vuole ricostruire e preservare, partendo dall’infanzia. In questi ricordi si materializzano più oggetti che persone.

Un figlio arrabbiato. Un padre evocato. Un dialogo unilaterale. Il senso della malattia e della morte. Un bisogno di contatto che non rompe una distanza che è di spazio e di tempo. Un senso d’inattingibile che riconduce al legame di Odisseo con Itaca: più la lambiva, più se ne allontanava.
La realtà è sfuggente. Non basta «vuotare il sacco» per fare chiarezza.

“Chi ha ucciso mio padre” è la storia di un’assenza. È una trama di abbandoni e povertà.
Indagando l’individuo nelle sue conflittualità, Édouard Louis va alla scoperta delle radici profonde delle nevrosi di un figlio individuandole nei traumi infantili e in particolare nelle problematiche relazioni con i genitori. La legge del padre entra in crisi. La trasmissione generazionale delle norme etiche risulta problematica in una fase di continue trasformazioni.

Francesco Alberici dà forma ai sentimenti negativi che l’autoritaria figura paterna suscita in un figlio, alla sua aperta ribellione, all’impossibilità di un’identificazione, la quale a sua volta produce un’identità incerta e debole.
Ben diretto da Deflorian e Tagliarini, cupo nella felpa caliginosa in cui lo ingabbia la costumista Metella Raboni, l’ottimo Alberici scolpisce un conflitto che rimbalza dal padre alla patria. L’epilogo del libro, come di quest’adattamento teatrale, è un vero e proprio pamphlet. Colpisce i politici, accusati da Édouard di essere responsabili della distruzione del corpo del padre attraverso una serie di riforme – fiscali, sociali, lavorative – impattanti sulla vita degli individui più fragili. Il padre di Édouard non è che un paria: «Tu appartieni a quella categoria di uomini cui la politica riserva una morte precoce».
La sequela di nomi celebri e insospettabili sciorinata dall’autore (Chirac, Sarzoky, Hollande, Macron) apre uno squarcio sullo sciovinismo impudente di politici che – da destra a sinistra – hanno smantellato lo stato sociale nella patria dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese. Louis straccia ogni velo d’ipocrisia.
Una microstoria personale, un caso di disagio esistenziale, diventa paradigma di uno scontro generazionale. Assurge a ribellione. Si trasforma in rivolta di classe e requisitoria contro i miti della modernità e della produttività senza etica, nell’atto in cui denuncia politiche economiche ciniche e dissennate.

CHI HA UCCISO MIO PADRE
testo: Édouard Louis
regia: Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
traduzione: Annalisa Romani edita da Bompiani – Giunti Editore S.p.A.
adattamento italiano: Francesco Alberici, Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
collaborazione all’adattamento: Attilio Scarpellini
con: Francesco Alberici
luci: Giulia Pastore
suono: Emanuele Pontecorvo
costumi: Metella Raboni
assistenza alla regia: Chiara Boitani
collaborazione artistica: Andrea Pizzalis
organizzazione, distribuzione: Giulia Galzigni – Parallèle
amministrazione: Grazia Sgueglia
produzione: A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, TPE – Teatro Piemonte Europa – Festival delle Colline Torinesi, FOG Triennale Milano PerformingArts
Qui a tué mon père, Copyright © 2018 Édouard Louis – All rights reserved. Edouard Louis, Chi ha ucciso mio padre, traduzione di Annalisa Romani © 2019 – Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

durata: 1h 30’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Milano, Triennale Teatro, all’interno di FOG, Performing Arts Festival, il 22 maggio 2021

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