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La chiusura dell’ETI e la coscienza in pericolo

In attesa dell'epilogo
In attesa dell'epilogo
In attesa dell’epilogo

Prima ancora di prendere posizione, qualche dato è doveroso riportarlo: stando alla stampa quotidiana, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali sarebbe in grado di riassorbire solo quella parte di dipendenti dell’Ente Teatrale Italiano – mai stato così famoso come in questo periodo! – che prendono (o prendevano?) stipendio dallo Stato, pari a soli 28 individui, mentre risulterebbero “ricollocabili con difficoltà” i lavoratori dello spettacolo (che fanno capo all’Agis) attualmente impiegati nell’Ente. In primis, quindi, il problema parrebbe di carattere occupazionale, come d’altronde accade quasi sempre in questi tempi di crisi. Occupazionale e dunque politico, ché questa famosa crisi non la sentiamo tutti allo stesso modo, credo. Ma il problema politico è quello che qui ci interessa di meno. Proviamo intanto a capire come un ente pubblico come l’Eti gestisce il denaro che, in sostanza, gli arriva dalle nostre stesse tasche.

Complessivamente parliamo di 173 dipendenti mantenuti in organico da un fondo pubblico di 12 milioni di euro. La politica di trasparenza che ci farebbe democratici (e che molto spesso si assenta per prendere un caffè in qualche posto segreto) ci permette qui di citare la percentuale in cui il fondo viene utilizzato per il monte stipendi: meno del 40%. Quasi il 50% è investito nelle attività, mentre circa il 6% è dedicato ai servizi di funzione. E parliamo di un incasso annuo di 3.700.000 euro (dati del 2009).

L’Eti, nato nel 1942 come organo delegato a preservare e gestire il patrimonio teatrale italiano, ha realizzato – soprattutto negli ultimi anni – una serie di progetti anche a carattere internazionale (Teatri del Tempo Presente – Nuove Creatività che si occupa della produzione e della distribuzione sul territorio nazionale del teatro emergente, Space, terreno europeo di confronto per la “salvaguardia” e l’interscambio di energie per lo spettacolo dal vivo), tentando contemporaneamente di fare spazio alla qualità – sia nuova che già affermata – sul palcoscenico italiano. Passati da quattro a tre (il Quirino è ora privatizzato), i teatri gestiti dall’Eti sono attualmente la Pergola di Firenze, il Duse di Bologna e il Valle di Roma. Quest’ultimo ha da poco presentato la nuova stagione, che per la seconda volta si fa testimone di un modo completamente nuovo di formare il cartellone di un teatro, lo schema chiamato “Monografie di scena”. Il Valle ha selezionato le realtà più interessanti del teatro italiano e internazionale per dedicare a ciascuna di esse un mese di programmazione, permettendo loro di presentare al pubblico romano il proprio “repertorio”. Un’occasione unica (e lo dico per esperienza) per andare davvero a fondo nelle motivazioni, nelle scelte, nelle istanze del teatro di grandi artisti come, tra gli altri, Emio Greco, Emma Dante, Scimone e Sframeli e prossimamente Bob Wilson, Teatro delle Albe, Elfo, Diablogues e molti altri.
Se raccontiamo così nel dettaglio un progetto virtuoso come i premi citati e le “Monografie di scena” del Valle non è per fare pubblicità all’Ente, ma per portare un esempio di che cosa significhi approfondire e fare rete. Perché su questi due aspetti – fondamentali per la creazione e la circuitazione dell’attualità teatrale – peserà l’eventuale soppressione dell’Eti.
E così, partendo da una questione sociale e politica, passando per quella storica e soffermandoci su quella economica, siamo tornati alla questione culturale. Eppure forse il punto principale non sta nemmeno qui. Almeno proviamo a far osservare un ulteriore punto di vista, che più si adatta a queste pagine.

Una volta di più, “un morso alla volta” (come diceva un collega), qualcuno si sta divorando la nostra coscienza. Sì, perché prima ancora di un assalto all’economia, prima ancora di un attentato alla cultura, chiudere un ente come l’Eti – così come oscurare programmi tv che fanno vera informazione o approvare certe leggi – è un passo avanti verso l’ignoranza. E non nel senso di mancanza di cultura, ché questo è un concetto fin troppo comprensibile anche per cervelli come quelli di chi quei passi sta ora tentando di compierli. Coscienza nel senso medico e psicologico del termine, come “consapevolezza dell’ambiente circostante e la facoltà di interagire con esso”, ci suggerisce il dizionario. Non parleremo qui di come l’assopirsi di una coscienza possa favorire i colpi più inaspettati, ché torneremmo a sguazzare nella politica.
Di certo diremo che l’Eti, come altri organi, rappresenta un polo catalizzatore di cultura, sicuramente uno stimolo per quella coscienza che ci vedrebbe capaci di appropriarci di uno spazio, di un tempo, di un discorso, di completare un progetto e farlo circolare, condividerlo. Che ci permetterebbe di avere “consapevolezza dell’ambiente circostante e facoltà di interagire con esso”.
Nonostante la grande mobilitazione, di certo entrambi gli esiti della protesta lascerebbero qualcuno scontento, anche solo per quelle ragioni politiche di cui davvero non vogliamo parlare. Noi prendiamo parte a questa protesta, firmiamo petizioni, leggiamo e ascoltiamo, sempre nel tentativo di non scambiare tutta questa sommossa popolare per qualcosa che “va di moda”, un modo per incontrarsi tutti al Valle, al Duse o alla Pergola. Ché più si rende “pop” il problema, più ci si allontana dal cuore della questione. E si perde altra coscienza.

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