Cosa fa una donna inquieta che, chiusa tra le quattro mura d’una stanza/esistenza, vive in solitudine la sua pena d’amore? Sta nell’attesa vana di una telefonata (che mai arriverà) ad ascoltare canzoni struggenti, da Mina a Patty Pravo. Così fa anche Jennifer, travestito di una Napoli primi anni ’80 che, inventandosi una vita ed un suo mondo, tenta di trascorrere un’ulteriore giornata senza affogare.
Napoli è, per eccellenza, una città ‘travestita’: ce lo ricorda anche Enrico Fiore, caro amico e compaesano di Annibale Ruccello. Ma quella dell’autore partenopeo, scomparso prematuramente a trent’anni nel 1986, non è una Napoli iperrealistica bensì immaginata: con un nuovo quartiere-ghetto riservato ai travestiti, con i telefoni collegati sistematicamente ai numeri sbagliati, con un serial-killer che uccide i ‘femminielli’ sprangati in casa senza forzare alcuna porta o finestra e abbandonando sui cadaveri cinque rose rosse.
Se Ruccello mette in scena un luogo ben caratterizzato e dalla forte identità, sono proprio in lotta con le rispettive identità di genere i protagonisti della pièce scritta nel 1980. Jennifer è un travestito senza seno, senza femminilità, senza ormoni, senza lunghi capelli fluenti. Ma con le gambe pelose, con una parrucca che mette e toglie, con mestruazioni finte e con un’umile vestaglietta da casa. È lontano, qui, l’immaginario di travestitismo traboccante di sesso, che lascia il posto a una vita di stenti, sia economici che sentimentali.
A riempire il disagio ci sono le rose di Jennifer: che adornano pareti, ingentiliscono il vaso sul tavolo, rivestono letti e separé, contornano sofferenze e pungono di spine fin dentro la carne, affondando nell’anima per farne fuoriuscire lacrime trattenute e mai ammesse.
Jennifer, ‘donna’ innamorata dall’idea dell’amore, si cambia d’abito per il suo amato Franco, l’uomo del Nord che potrebbe dare la svolta alla sua vita ma mai lo farà, prepara ogni sera la cena per due, lascia libero il telefono per una chiamata bramata da tre mesi, annientandosi in un’attesa che non verrà soddisfatta. Un lento declino che la trascinerà fino alla disperazione finale: uno sparo risolutore e simbolico.
Unica figura a rompere le mura di solitudine è l’apparizione di Anna, altro travestito che con Jennifer condividerà attimi di preoccupazione, angosce e lutti. Il tutto in bilico fra un grido di disperazione e l’asfissia.
Arturo Cirillo, tornato a Torino con uno spettacolo che fin dal suo debutto nel 2006 ha raccolto un buon successo di pubblico, decide di vestire i panni di Jennifer, che furono interpretati dallo stesso Ruccello. Lo fa con grazia, sottolineando le mille sfumature della ‘diversità’, in un rocambolesco gioco di apparenze, metafore e intimità.
“Non esiste il travestito ma esistono i travestiti, diversi come le vite di ogni persona, io e Monica [Piseddu, nel ruolo di Anna, n.d.r.] facciamo i nostri, quelli che ci siamo immaginati, e attraverso di loro, anche dolorosamente, parliamo anche di noi stessi, di come noi siamo – scrive Cirillo nelle note di regia – Io ignoro cosa abbia spinto Ruccello a decidere di rappresentare la sua sensibilità e la sua emotività attraverso la figura, direi l’archetipo, di un travestito; io ho trovato, in questi personaggi, la disperata necessità della menzogna e dell’illusione per non vedere il niente delle nostre esistenze”.
Le cinque rose di Jennifer
di Annibale Ruccello
con: Arturo Cirillo, Monica Piseddu
regia: Arturo Cirillo
scene: Massimo Bellando Randone
disegno luci: Pasquale Mari
costumi: Gianluca Falaschi
musica originale: Francesco De Melis
produzione: Nuovo Teatro Nuovo / Teatro Stabile di Innovazione di Napoli in collaborazione con Amat
Visto a Torino, Teatro Gobetti, il 27 febbraio 2009