Civitanova Danza in cerca del rapporto col pubblico

I protagonisti di We love arabs|Forgot to love (photo: Oksana Pelegova)
I protagonisti di We love arabs|Forgot to love (photo: Oksana Pelegova)
I protagonisti di We love arabs
I protagonisti di We love arabs

Si è chiuso in una finalmente calda giornata estiva il XXI festival di Civitanova Danza, secondo la formula inaugurata lo scorso anno del “festival nel festival”: un intero pomeriggio/sera dedicato alla danza con una struttura itinerante che ha invaso tutti i teatri della città, il Cecchetti e il Rossini, appoggiati al lungomare, e il Teatro Annibal Caro, nel centro della parte alta, arroccata sulla collina.

In realtà tutto inizia all’interno dell’Hotel Miramare con un focus sul tema “Danzare il pubblico”.
L’audience development è ormai una dicitura all’ordine del giorno: dai programmi europei per il sostegno alla cultura ai community project, il pubblico viene posto al centro di numerosi tentativi di ridurre la distanza tra scena e platea. La lettura dei dati, ma anche la semplice osservazione, rendono evidente come il pubblico della danza contemporanea sia un pubblico estremamente casuale, non chiaramente identificabile, con una percentuale molto ridotta rispetto agli operatori che seguono festival e rassegne, in una sorta di autoreferenzialità che stenta ad allargare il proprio campo.

Alessandro Pontremoli (docente presso il DAMS di Torino), Nicholas Minns (danzatore e critico) e Ambra Senatore (danzatrice e coreografa) sono i tre relatori chiamati a confrontarsi su questi temi. Tre sguardi molto diversi per campi di interesse e per esperienze, che cercano di individuare e puntualizzare la problematica, nonché di trovare possibili soluzioni.

Osservando la sala e valutando le presenze, quasi esclusivamente di operatori, balza agli occhi in maniera lampante la lontananza di un percorso culturale condiviso tra chi la danza “la fa” e chi “la pensa”.
A pochi metri di distanza sta per iniziare l’Happy Dance Hour, una rassegna delle scuole di danza della città che riempie il vicino Lido Cluana di allievi aspiranti danzatori e dei loro familiari, parenti, amici venuti ad assistere. Eppure i due luoghi non comunicano, non c’è travaso di spettatori tra l’uno e l’altro.

Le parole del professor Pontremoli acquistano una chiara evidenza quando richiamano alla necessità di “non formare un universo chiuso di narcisismi”, e individuano una mancanza nelle istituzioni preposte alla formazione di “potenziare la conoscenza e le visioni”. Se quindi siamo di fronte ad un “attivismo senza precedenti nel numero di fruitori della danza, lo stesso attivismo è senza progettualità forte e con scarsa tecnica.

Nicholas Minns attira l’attenzione sulla limitata attenzione mediatica rivolta a quella danza che si pensa come “processo” e non come “prodotto”, e lancia alcune proposte per attivare nuovi canali di comunicazione tra spettatori e artisti ma anche tra i coreografi stessi.
Ambra Senatore porta la sua esperienza di lavoro in Francia, nazione in cui l’attenzione alla creazione di sostrato culturale attento alla danza contemporanea è iniziato parecchi anni fa; ci racconta di come in una Provincia sia stato attivato un corso di danza riservato ai dipendenti, considerato come formazione per capire questa forma d’arte nel momento in cui viene programmata nelle attività della Provincia stessa. Ovviamente questo è un caso emblematico e forse non così diffuso, eppure sancisce la necessità, per la danza, di non dimenticarsi dello spettatore, ma di pensarsi in relazione ad esso, di conseguenza ad allenarsi anche all’esercizio critico nell’educazione dello sguardo.

Questi discorsi continuano ad intrecciarsi durante un breve aperitivo e poi parte la maratona.

L’apertura è affidata a Hillel Kogan con il suo “We love Arabs”. La performance intreccia gli stereotipi della modalità di creazione di una coreografia con gli stereotipi identificativi di questi due popoli, trattando la materia con arguzia ed umorismo.
Il danzatore arabo disegnerà così una stella di Davide sulla maglietta del coreografo israeliano, e l’altro una mezzaluna araba sulla fronte del danzatore, ma solo “per far sì che il pubblico li possa riconoscere” come spiega il coreografo stesso nel parlato che accompagna tutto il pezzo.

Il danzatore però è cristiano, possibilità che non era stata presa in considerazione, ma che viene risolta con arguzia sottile nel considerarla altra informazione da inserire all’interno della creazione coreografica.
Il parlato continua ad esplicitare le visioni che devono dare origine alle scene su cui si articolerà la coreografia, visioni che in maniera leggera ma non scontata sono legate alle mille problematiche che affliggono il rapporto tra i due popoli, fino ad arrivare alla danza finale dell’hummus, piatto tipico mediorientale a base di ceci e sesamo, la cui paternità è oggetto di grande contesa non solo tra arabi e israeliani ma anche tra arabi di diverse nazionalità.

La danza è un passarsi tra continue evoluzioni il recipiente contenente l’hummus dopo però esserselo spalmato sulle facce, gesto che lima le differenze e riunisce i due danzatori, trasponendo quella che potrebbe essere una contesa cruenta in una danza ludica.
L’arte, in particolare la danza, ha la possibilità di superare le controversie, trasfigurarle e ricomporle: potrebbe essere un messaggio scontato, ma la modalità intelligente e fine con cui è stato porto lo ribadisce in maniera non pedissequa, e, proprio per il canale scelto, lo rafforza.

Forgot to love (photo: Oksana Pelegova)
Forgot to love (photo: Oksana Pelegova)

Ci si sposta al Teatro Rossini per assistere a “Forgot to love”, creazione del duo israeliano/olandese Ivgi – Greben.
Dal buio emerge una bellissima scenografia: teli di tessuto grezzo sono appesi per tutto il perimetro del palcoscenico messo a nudo; luci azzurre semoventi la indagano, lasciando intravedere nella semioscurità figure che si cercano, si liberano dei teli che le ricoprono per iniziare la loro danza.
Il pezzo del Provincial Dances Theatre è incentrato sulla ricerca sempre disattesa dell’amore, in una solitudine che non si risolve mai. Lo spazio è interpretato per sequenze non a fronte univoco, come a ribadire l’impossibilità per gli sguardi degli interpreti di incontrarsi.

La continua ripetizione di questo cliché, così come una qualità del movimento in cui l’energia e la vitalità che contraddistinguono i giovani danzatori si risolvono troppo spesso in una enfasi eccessiva, appesantiscono però la coreografia. Nessuna diversa declinazione del tema trattato, nessun climax che modifichi il timing generale.
La presenza e la bravura dei danzatori, così come il bellissimo disegno luci, non riescono a supplire a una mancanza di sviluppo e di tensione coreografica: forse “troppo prodotto” e “poco processo”, per tornare con la memoria a ciò che è stato detto nel focus pomeridiano.

Lo stesso pensiero ritorna dopo la visione dell’apertura del progetto di residenza di Giulio D’Anna, “R_esistere”.
Un cantiere aperto dovrebbe mantenere in qualche forma la sua caratteristica di processo in divenire: il coreografo dovrebbe trovare la possibilità di lasciare in fieri il suo lavoro e il pubblico di assestarsi su una modalità di osservazione diversa rispetto a uno spettacolo che ha trovato la sua forma compiuta; educarsi a vicenda, verrebbe da dire. Quindi da una parte essere in grado di mostrare le proprie fragilità e dall’altro mettere in atto una modalità di ascolto e partecipazione e non di giudizio; interrogarsi su cosa veramente voglia dire aprire il lavoro nelle sue fasi intermedie per chi fa e per chi osserva.

“R_esistere”, al punto in cui ci è stato offerto, mostra tutte le fragilità di una ispirazione ai suoi inizi, colta nel barlume e non ancora forte da informare di sé una durata comunque di tutto rispetto (40 minuti). Aspettiamo quindi di vedere come si risolverà la felice intuizione di una pedana che è al tempo stesso luminosa e sonora, e con che coerenza si legherà al tema della “resistenza” politica, emotiva e fisica che abbiamo intuito in alcune scene. Per ora siamo stati un pubblico passivo, relegato nel buio della sala.

WE LOVE ARABS
coreografia: Hillel Kogan
danzatori: Adi Boutrous, Hillel Kogan
musiche: Kazem Alsaher, Wolfgang Amadeus Mozart
consulenti artistici: Inbal Yaacobi, Rotem Tashach
con il sostegno dell’ Ufficio Culturale Ambasciata di Israele – Roma

durata 20’
applausi 2’

stars-4

 

 

FORGOT TO LOVE
coreografia Uri Ivgi, Johan Greben
danzatori: Roman Borodin, Evgenii Lalachev, Artem Khromykh, Anton Lavrov, Svetlana Makarenko, Kseniia Mikheeva, Ekaterina Savelyeva, Olga Sevostyanova, Tatiana Shchipko, Kseniia Stepanova
disegno luci: Yaron Abulafia

durata 1 h
applausi 2’

stars-3

 

 

CANTIERE APERTO PER R_ESISTERE
concept, direzione e coreografia:Giulio D’Anna
composizione musicale: Maarten Bokslag
set design: Jasper van Roden
assistenza, direzione, produzione: Agnese Rosati
produzione: Nederlandse DansDagen, Dansateliers Rotterdam, Versiliadanza
in collaborazione con AMAT & Civitanova Danza
nell’ambito di Civitanova Casa della Danza
progetto vincitore Nederlandese DanDagen Premio di Maastricht 2013, selezionato per Dans Elargie Theatre de la Ville

durata 40’
applausi 1’

Visti a Civitanova Marche nell’ambito di Civitanova Danza 2014

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