Chi non vorrebbe intervistare Claudia Castellucci? Chi non cercherebbe un confronto con una delle massime interpreti del nostro teatro contemporaneo? Fautrice, con Romeo Castellucci, Chiara Guidi e gli altri collaboratori storici, del progetto Socìetas Raffaello Sanzio, ma anche di tutto quell’insieme di esperimenti e percorsi di approfondimento sulle arti scenico/performative in senso lato.
Uno di questi è il complesso di ricerche che ha composto l’istruttoria sul ballo collettivo della Stoa, la scuola teatrale di movimento fisico e filosofico nata a Cesena nel 2002 e che prende il nome dall’antico portico in cui Zenone incontrava i suoi scolari.
E, anche oggi, l’esperimento è condotto dalla Socìetas con giovani che studiano diverse discipline o lavorano in campi differenti.
Tra fine marzo e inizio aprile, con “Occupare e Ornare”, il Crt Teatro dell’Arte di Milano ha ospitato alcuni esiti della scuola, intenta a studiare il ballo (così si chiamano gli spettacoli della Stoa, “perché il ballo marca soprattutto il tempo e ha un’impronta collettiva e inespressiva, a differenza della danza, che percorre lo spazio con un’intenzione individuale e sentimentale”) e la sua relazione con l’abitare.
Come spiega Claudia Castellucci nella video-intervista che proponiamo oggi, i fili rossi che legano “Ballo capace di agonia”, “Pro Loco isto” e “Simiam videbo (vedrò la scimmia)” sono il senso locale delle discussioni, delle esercitazioni e dei balli circolari. Parliamo di ballo ma anche di molto più, dell’ancestrale insieme di gesti, ritmi, tempi e movenze che fanno capire come la danza circolare vada dalle Highlands scozzesi alle tarante fino ai balli maori. Ci dev’essere qualcosa che lega tutto, il senso dello spazio, la rivendicazione del collettivo, l’appartenenza dell’uomo al progetto terrestre: e il ballo sviluppa i tre modi essenziali della lotta con sé, con l’altro, con l’insieme.
Il ballo considera lo spazio non come un campo da fendere, definire con traiettorie e delimitazioni, ma come un contenitore in cui albergano già tutte le forme di cui è capace.
Una sorta di mondo delle idee platonico, o l’essere di Parmenide in cui già tutto è. L’artista deve semplicemente raccogliere in sé la sensibilità che serve a sentire l’essenza di questo: “l’impassibilità dell’espressione che è agonia di tutte le prefigurazioni, come quella dell’atleta prima di un salto mortale”. Legata a questa considerazione sullo spazio, anche quella sul tempo, non più misura di una distanza percorsa ma, nell’elaborazione teorica della Stoa, durata ed ulteriore elemento di distinzione fra ballo e danza.
Ballo, ginnastica, discipline del tempo istantaneo e circolare. Un’indagine che dice senza dire. E che, come in una sorta di rituale trance, spinge gli ospiti del teatro, dopo la prima performance, a salire sul palco e ad unirsi nel rito collettivo. L’apprendimento dei passi è pressochè istantaneo, come se fossero movimenti già codificati dal nostro sistema genetico di conoscenze.
Claudia Castellucci, che cura la regia del progetto, è al mixer. A guidare il tutto sono le sue mani. Guarda con soddisfazione gli spettatori, che dapprima timidamente, poi in gran numero, si catapultano sul palco.
Ha voluto che prediligessimo le inquadrature del lavoro piuttosto che lei. Fra la performance e il rito collettivo, nel corridoio dietro i camerini del Crt di Milano, sceglie le parole, socchiude gli occhi nella concentrazione di cercare proprio quelle giuste: l’icastica definizione del pensiero in movimento. Circolare, come il tempo, come il ballo.
Domani pubblicheremo l’audio integrale dell’intervista.