L’attenta programmazione di danza del Teatro Quarticciolo firmata da Valentina Marini non smette di incuriosire, ospitando non solo grandi nomi, ma anche danzatori e coreografi in ascesa, ancora alla ricerca di uno spazio solido e riconosciuto, e di un linguaggio proprio.
Il doppio appuntamento con “Clavos” di Francesco Vecchione e “Animale” di Francesca Foscarini conferma questo indirizzo progettuale, presentando due lavori che di segno più opposto non si potrebbe.
Il lessico di Foscarini è quello tipico di una certa danza di ricerca, una coreografia “nuova” e impura, mista di elementi classici e di sforzo creativo, di disarticolazioni e di estremi, che giungono alla mimesi e alla stasi.
All’ingresso del pubblico in sala, il performer Romain Guion è già sul palco, gioca ributtando in platea la luce dei proiettori con uno specchietto. Al calar delle luci è sbattuto, trascinato come da una forza interna, un carico di energia indistinta e irresistibile che aspetta di essere declinata, tradotta, metabolizzata: una sorta di materia grezza in attesa di raffinazione. Il corpo cerca dunque, attraverso i vari indirizzi, una propria lingua, un proprio ‘stare’, come si anticipava: dalla mimesi animalesca (balenano i passi al galoppo dei cavalli dell’Odin Teatret raccontati da Carolina Pizarro ma probabilmente è solo una suggestione personale), a codici di lotta, o persino quotidiani, come una sorta di grigia routine del vestirsi, lacci e chiusure-lampo, a fratture e sequenze più neutre, ma sempre tese, flagranti contraddizioni tra linee, ripetizioni di moduli e qualche minimalista tentativo di sviluppo tematico.
Si potrebbe dire: danza anno zero.
Eppure la materia del laboratorio, al di là dei cliché è viva, lo si intuisce nello spudorato ostinato lirico del finale (un po’ sciupato dalla leziosità di un nudo forse automatico), che mostra un carattere di monolitica levità petrarchesca: Guion è accucciato in terra e sul suo petto una lunga proiezione quasi statica di un unicorno, sottoposto a lentissimi mutamenti di luce e allo sciogliersi di una pioggia intridente e oscura.
La musica è un tappeto disteso costantemente, a-ritmico, e se prima il portato della scansione del tempo era appannaggio esclusivo del performer, ora attira l’attenzione su di sé attraverso screziature di cellule tematiche riconoscibili, sibilline e affascinanti.
Dall’alta parte del mondo, poggiato su basi culturali tanto monumentali quanto rischiose (Montale, Beethoven, tanto per dire – e, si parva licet, “Il cielo in una stanza”), il confettato lavoro di Francesco Vecchione è tutto narrativo, comunicativo, non interessato a una ricerca del segno coreografico come tematico, metalinguistico.
La storia è una storia d’amore: i due danzatori – lo stesso coreografo e una luminosissima Giulia Russo – entrambi in monocromi completini gialli un po’ alla Wes Anderson, ne sono i componenti. Li accompagna un enorme palloncino blu, di volta in volta riconfigurato da ruolo di terzo incomodo, di “patata bollente”, di oggetto condiviso, a prezioso legame da preservare, e comunque a sempre aereo senhal di quel preciso, particolare amore, quello fra i due in scena.
In questo panorama generosamente comunicativo, suona particolarmente indovinato il ricorso a sorpresa al parlato, sotto forma di brevissimi lacerti di discorso amoroso, quotidiani e come raccolti dal pavimento di un appartamento condiviso, parole cadute dopo un gesto, inavvertite, mozziconi: «Fra’, guarda!» dice lei; e lui: «Aspetta, mi aiutano loro» alludendo al pubblico. E ancora una volta in tono è il ricorso a una graziosa forma di ironia, che commenta il commento musicale («un organo che vibra» canta Gino Paoli, e loro pure vibrano, in un abbraccio tremolante) e a volte arriva a collegare palco e platea, nel tentativo di far rigonfiare il fatidico pallone esploso a qualcuno del pubblico, con risultati se non fallimentari, certamente tardivi: lei si è ormai spogliata del suo vestitino giallo (nudità, di nuovo), ha abbandonato lo spazio scenico, e il palloncino si è fatto… rosso!
Se lì si richiamava Petrarca, qui, assai meno lambiccata nell’evocazione, è di Prévert che si sente la voce. Roca e melanconica sui baci all’in piedi dei suoi “Ragazzi che si amano”, tanto simili a questi due figurini delicati e un po’ leziosi.
Clavos
coreografia Francesco Vecchione
danzatori Giulia Russo, Francesco Vecchione
musicaLudwig van Beethoven “Sonata No. 14 “Moonlight” in C-Sharp Minor, Op. 27, No. 2: I. Adagio Sostenuto”, Federica Cino “Original music” | luci Francesco Vecchione | costumi Francesco Vecchione
Animale
ideazione, creazione Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco
coreografia Francesca Foscarini
interpretazione, co-creazione Romain Guion
drammaturgia Cosimo Lopalco | musiche originali Andrea Cera | video Licorne Maider Fortune | disegno luci, cura della tecnica Luca Serafini | consulenza e programmazione videoproiezione Andrea Santini | costumi Giuseppe Parisotto | voci Miki Seltzerin Genesi 2 (19-20), Bela Lugosi in Bride of the Monster Ed Wood | suoni Seals Martin Clarke, Summer Sunset Eckhard Kuchenbecker, Tikal Dawn Andreas Bick | ringraziamenti a Chiara Bortoli, Alfonso Cariolato, Rocco Giansante, Perrine Villemur, Fiorenzo Zancan | con il contributo del MIBac | il sostegno di CSC Centro per la Scena Contemporanea Bassano del Grappa, Tanzhaus Zurich, Istituto Italiano di Cultura Parigi, Teatro Stabile del Veneto
Visti a Roma, Teatro Quarticciolo, il 10 novembre 2019