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La nostra co-spirazione collettiva. Intervista ad Anagoor

Simone Derai, Marco Menegoni, Mauro Martinuz (ph: Dido Fontana)

Simone Derai, Marco Menegoni, Mauro Martinuz (ph: Dido Fontana)

Dalla riapertura della Conigliera ai nuovi progetti formativi e artistici, perchè “La parola è in grado di far sprigionare visioni mentali”.

Il 2024 sta portando molte novità in casa Anagoor, compagnia vincitrice del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 2018. A partire dalla riapertura al pubblico della Conigliera, sede operativa a Castelminio di Resana (TV), alla proposta da molto sospesa di laboratori formativi, fino a varie produzioni e commissioni.

Dopo il Premio Hystrio alla regia e Hystrio Castel dei Mondi, Premio Anct, Premio Rete Critica, segnalazioni e altri riconoscimenti internazionali, il Leone d’Argento non sembra aver catalizzato una circuitazione più fortunata. Ciò che risulta ancor più aberrante, per chi scrive, è l’estromissione dai palcoscenici veneti, persino di “Ecloga XI“, uno spettacolo dedicato ad un nume tutelare del territorio locale, Andrea Zanzotto.
Sorprende, invece, l’ospitalità ricevuta in Germania, specificatamente al Theater an der Ruhr a Mülheim an der Ruhr, tra Düsseldorf ed Essen, un teatro stabile di ricerca fondato negli anni Ottanta da un transfuga italiano, Roberto Ciulli, insieme a Helmut Schäfer e Gralf-Edzard Habben. Dopo essere stati notati a Napoli dalla direzione artistica tedesca, gli Anagoor sono stati in un primo momento inseriti nel cartellone del festival con “L.I. Lingua imperii“, successivamente sono stati nominati artisti in residenza per un triennio. Il Theater an der Ruhr ha quindi in parte sostenuto la produzione di “Orestea”, “Mephistopheles, Germania. Römischer Komplex, Bromio”, più una versione in tedesco di “Socrate il sopravvissuto”.
Una versione italiana di Bromio, interpretato da un ensemble diverso codiretto da Marta Ciappina, ha debuttato a fine luglio a OperaEstate Festival a Bassano del Grappa e sarà riproposto il 19 settembre a Centrale Fies. In luglio Anagoor è stata invitata a Montepulciano (SI) al Cantiere Internazionale d’Arte, un progetto artistico e sociale che coinvolge creativamente la cittadinanza stessa, per curare la regia scenica di una versione musicale de “El Retablo de Maese Pedro”, un episodio del Don Quixote de la Mancha di Miguel de Cervantes, su libretto di Manuel de Falla. L’operazione si inserisce in un percorso intrapreso dalla compagnia nel 2014 di creazione su commissione di partiture visive e sceniche per opere musicali meno conosciute, che si collocano su un solco meno calpestato e più sperimentale anche nel caso di autori noti.

Ma il richiamo del proprio territorio si è fatto sentire, e in primavera gli Anagoor hanno riaperto i battenti della Conigliera, una sorta di grande hangar, in origine destinato all’allevamento cunicolo. Rilevato nel 2008, è stato trasformato in culla delle arti contemporanee, diventando sia incubatore delle creazioni della compagnia, sia vetrina dei più importanti interpreti del teatro di ricerca e performativo degli anni Duemila: infatti, dal 2003 al 2010 si sono svolte otto edizioni di un festival capace di stagliarsi come punto di riferimento regionale per la ricerca scenica. Come altre iniziative dell’epoca, anche in questo caso ci si è scontrati con un calo via via sempre più drastico di investimento sia finanziario che valoriale in particolare nell’ambito dello spettacolo dal vivo meno convenzionale.

In primavera la Conigliera ha inizialmente accolto una proposta laboratoriale degli stessi Anagoor, replicata nei mesi successivi in diverse altre sedi, che anticipa la conduzione di un modulo di formazione in regia all’interno del progetto Teseo del Teatro Stabile del Veneto. A maggio, in ascolto del rinnovato seguito, per ricapitolare il percorso della compagnia degli ultimi anni ed incontrare aficionados quanto nuove conoscenze, soprattutto tra le giovani generazioni, sono stati presentati alcuni lavori che il pubblico veneto fatica ad intercettare nelle sale locali: l’interpretazione di Marco Menegoni di “Liber secundus: Ilio brucia”, estratto oramai autonomo del più ampio Virgilio brucia; la proiezione del film “Todos los malos” diretto da Simone Derai; “MEPHISTOPHELES: eine Grand Tour”, raccolta di materiali video riuniti in un viaggio per immagini musicato in un live set elettronico dal vivo da Mauro Martinuz; inoltre, “Polittico dell’infamia”, prova aperta di un lavoro ancora in fieri, che prende le mosse dal romanzo di Pablo Montoya e da tavole di Theodor de Bry.
Abbiamo parlato di tutto questo con Simone Derai (SD) e Marco Menegoni (MM).

Ci potete descrivere meglio le proposte formative che state offrendo?
MM: Si tratta di laboratori aperti tanto al neofita, quanto al professionista, in cui proponiamo di tornare ad alcune pratiche di base – movimento nello spazio, interazione, attività di propedeutica – ai fondamentali, che spesso per gli esperti sono date per acquisite, ma poi rischiano di trasformarsi in abitudini che invece è utile a volte mettere in discussione; anche il professionista, quindi, può trovarsi sorprendentemente in uno stato di riscoperta.
SD: Il cuore del lavoro è un allenamento insistito sull’ascolto e l’attenzione, un training della percezione, senza un invito a un tema o ad un testo; oltre alla pratica, si aprono spazi di discussione, di analisi teorica e scambio tra la pratica e la riflessione. Si invita ad andare in profondità e con precisione. Mi piace in particolare la possibilità di un connubio tra esperienze diverse perché esse attivano delle relazioni inaspettate: non solo l’artista professionista o più esperto è in grado di attivare nel neofita un apprendimento più rapido facendo da enzima, ma è vero anche il contrario: al professionista è dato poter osservare inaspettate poetiche mentre si dedicare all’affinamento dell’ascolto. Un lavoro sull’attenzione che, anche dal punto di vista della comunità, abbiamo bisogno di rinnovare. Infatti, più di una volta mi sono sorpreso ad osservare queste piccole cellule di comunità e a fare e condividere delle riflessioni politiche: come ci relazioniamo agli altri, quanta attenzione portiamo all’altro nello stesso momento in cui abbiamo esatta percezione di noi e della nostra posizione. L’approdo è un respiro comune, una co-spirazione collettiva.
Stiamo investendo su questo asse perché per noi l’ambito laboratoriale la formazione, la condivisione e lo scambio, la ricerca, è una delle anime genetiche e generative delle creazioni della compagnia.

La Conigliera è anche spazio per residenze creative?
MM
: Sì, ma non c’è una regolarità.
SD: A chi bussa, abbiamo dato ospitalità. Non abbiamo risorse, mettiamo lo spazio e le poche cose tecniche che abbiamo. C’è stata Laura Moro, i Madalena Reversa, il coreografo brasiliano Francisco Thiago Cavalcanti.

Proprio in Conigliera avete presentato “Le 17 tavole dell’infamia”, un segmento della vostra prossima produzione, il Polittico dell’infamia. Ci potete dare delle anticipazioni?
MM
: In questo segmento descrivo diciassette incisioni realizzate da Theodor de Bry nel XVI secolo. Si tratta di un artista fiammingo che ha scelto di illustrare la prima edizione della “Brevissima relazione della distruzione delle Indie” di Bartolomé de Las Casas, dato alle stampe nel 1552 a seguito di una serie di tentativi per porre fine alle atrocità del Nuovo Mondo su una base giuridica (nel 1512, 1530, 1537), conclusa dalla promulgazione delle Leggi Nuove di Carlo V nel 1540. De Bry ha cercato di dare una forma visiva alle atrocità che Las Casas racconta in maniera quasi ossessiva, fornendo di quel genocidio una problematica ma fondamentale documentazione.
SD: La cosa straordinaria è che Theodor De Bry, pur essendo l’incisore delle prime rappresentazioni della scoperta dell’America, non si recò mai nel Nuovo Mondo. Raccoglieva taccuini, schizzi, racconti di viaggiatori, cartografi, naviganti e, prendendo a prestito modelli dell’iconografia cristiana o della mitologia, realizzava delle tavole di cui oggi riconosciamo aberrazioni e miopie ma che all’epoca divennero iconiche per gli Europei: ad esempio, facendo di tante popolazioni e tante culture un’unica massa, spingendole in una sorta di immaginario edenico in cui gli indigeni erano puri ma primitivi.
“Il Polittico dell’infamia” trae la sua ispirazione da un romanzo di un autore colombiano, Pablo Montoya, espatriato in Spagna e docente di musicologia alla Sorbona. E’ un intellettuale molto infuso di cultura europea ed attento alla questione imperialista. Nel romanzo “Trittico dell’infamia”, l’io narrante si ritrova in giro per l’Europa e incontra il fantasma di Theodor de Bry, con il quale si confronta sulle proprie molte perplessità a proposito dell’efficacia dell’arte quando fissa gli occhi sul genocidio. E’ evidente con quale tremenda efficacia ancora una volta la letteratura sia in grado di anticipare questioni che ci coinvolgeranno in futuro: il libro, infatti, è stato edito nel 2013, oggi la questione del genocidio è deflagrata al centro del discorso politico in un orizzonte di sofferenza per molti inaccettabile.
“Il Polittico dell’infamia”, più che cercare di restituire giustizia alle storture imposte dall’imperialismo e dal colonialismo europeo, rivolge l’attenzione all’arte ed espande la questione: che posizione, che sguardo l’arte ci induce ad assumere? E’ preferibile testimoniare per mezzo di essa ad ogni costo oppure trattenersi dal protrarre e trasmettere l’immaginario della violenza? La violenza e il dolore che ne consegue sono rappresentabili? È giusto farlo? E farlo ha una qualche ricaduta?
Si tratta di un lavoro in cantiere dal 2019 e lo prepariamo ora per la scena attraversando questo momento storico dolorosissimo: se guerre e massacri non sono nuovi, purtroppo, oggi essi si svolgono nel diluvio di immagini provenienti in diretta dai luoghi di un genocidio che sta avvenendo ora, in questo momento; misuriamo quindi il pericolo dell’oblio per insostenibilità della visione, o dell’assuefazione, l’inopportunità della mescolanza a mille altre immagini che alternano, con una scrollata di pollice, cadaveri, pubblicità, intrattenimento, propaganda dell’altro fronte…
“Il Polittico” prenderà in esame non riproduzioni della nostra attualità, ma quelle prodotte da artisti e artigiani in altri tempi. La rappresentazione, sia realizzata da testimoni diretti che indiretti, è sempre una riduzione ed è foriera di storture. Theodor de Bry certo denuncia il genocidio in atto in America, ma usa i modelli dei patiboli e dei supplizi del martiriologio cristiano.
Quindi, come possiamo superare la perpetuazione dei modelli della violenza che si vorrebbe impedire? Bisognerebbe parlare di altro? Dunque passare all’oblio? Tra l’esigenza di rendere testimonianza e il pudore e la coscienza della propria pochezza si giocano paralisi, impegni immani, presunzione e insuperabile malinconia dell’artista.

Questo lavoro ci dà l’occasione di ricapitolare come si è trasformato il vostro rapporto con i media e l’immagine in generale, dal momento che siete emersi come compagnia connotata da una forte intermedialità o transmedialità.
SD
: Siamo in una fase in cui il rapporto col video si sta assolutizzando e separando dalla scena, o invadendola completamente, mentre in precedenza era uno tra i tanti elementi presenti in essa; la pratica del video quindi si è sviluppata in forma sempre più autonoma e in un rapporto esclusivo. Il video è diventato uno dei linguaggi con cui affrontiamo i progetti musicali (tra cui lo stesso “Mephistopheles”, un film musicato dal vivo), dove realizziamo tableaux visivi o film veri e propri che offrono una colonna visiva al programma musicale. Ma non è solo una questione di mezzo, questa metamorfosi risponde a riflessioni sulla visione teatrale e sull’immagine.
“Il Polittico dell’infamia” riflette su sguardo ed immagini e sicuramente ricorrerà al video, ma sarà la parola ancora una volta a consentirci di “guardare” il nostro sguardo mentre vede: Marco, senza guardarle, come un aedo cieco, recita le descrizioni atroci delle diciassette tavole di De Bry, mentre queste sono proiettate; si espone così lo spettatore ad una terribile ginnastica dell’occhio su un panorama di violenze senza pausa, ma, grazie alla parola, un percorso selettivo di dettagli farà affiorare piccoli, forse salvifici, residui di umanità: dalla sovrapposizione di parola e visione dovrebbe quindi sorgere, se saremo in grado, una nuova immagine nella mente e nel cuore degli spettatori.
Anche in “Ecloga XI” il video è scomparso, ma non l’immagine. Quando si è trattato di mettere in scena la parola di Zanzotto è come se noi avessimo intuito – non lo avevamo mai citato, mai utilizzato – che eravamo più zanzottiani nell’utilizzo del video, con cui documentavano un territorio ferito per mezzo di immagini che si accostavano al canone antico, e anche una certa tendenza alla proliferazione delle stesse in maniera analoga a quella in cui il lessico di Zanzotto pullula, prolifera per associazioni fonetiche e semantiche, salti, connessioni sinaptiche. Nel caso di Ecloga XI, non si poteva sovrapporre un metodo a un altro, se si voleva lavorare sulla possibilità che si ascoltasse la parola, l’avremmo infatti schiacciata.
MM: Anche “L’Italiano è ladro” incentrato su Pasolini, uno spettacolo che ormai ha 10 anni, non ricorreva al video. Così come Magnificat, tratto dall’opera di Alda Merini. Mi verrebbe da rintracciare un’affinità tra i lavori che rielaborano la parola poetica: laddove la parola poetica è così densa da rischiare di essere messa in ombra, il video scompare.
SD: La parola è in grado di far sprigionare visioni mentali. Non ha bisogno di un supporto ridondante.

Per vedere in scena “Il Polittico dell’infamia” occorrerà aspettare il 2025: debutterà nei primi mesi al Theater an der Ruhr e sarà a Torino in aprile al TPE.

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