E’ con grande curiosità che ci siamo affacciati ad un festival del tutto particolare, ma che seguiamo da decenni, e ora formulato in una nuova corroborante versione.
Stiamo parlando di Colpi di scena, storica manifestazione di Accademia Perduta che si è tenuta a Forlì per tre giorni intensi di programmazione dal 30 settembre al 2 ottobre.
Dicevamo nuova versione perché questa volta, in accordo con ATER, l’iniziativa non ha accolto solo creazioni dedicate all’infanzia, ma si è rivolta al teatro contemporaneo dedicato specificatamente agli adulti.
Dodici gli spettacoli presentati, e non potendo presentarveli tutti cercheremo di raccontarvene le derivazioni più fervide, per comprendere le direzioni verso cui questo teatro, creato soprattutto da giovani generazioni di teatranti, si sta dirigendo. Interessante e proficuo, inoltre, che il pubblico di operatori che lo ha seguito si sia finalmente mescolato, accogliendo anche un cospicuo numero di organizzatori e artisti di teatro ragazzi.
Gli spettacoli si sono alternati non solo sui palchi di Forlì (Teatro San Luigi, Teatro Testori, Teatro Il Piccolo, Teatro Diego Fabbri, EXATR), ma anche di Bagnocavallo (al Teatro Goldoni) e nel particolarissimo spazio del Teatro Sociale di Piangipane.
Cosa non scontata, nel Ridotto del Teatro Diego Fabbri si sono poi tenuti due incontri, uno incentrato sul testo teatrale, con Massimo Marino e Federica Iacobelli (curatrice della collana editoriale dedicata alla “letteratura teatrale” I gabbiani, ed. Primavera); e l’altro ideato invece da Renata M. Molinari, organizzato per interrogare tutte le compagnie presenti rispetto al proprio destinatario, in cui si è evidenziata la necessità di cercare di aprire le nuove creazioni ad un pubblico sempre più vasto, evitando un ‘atteggiamento’ autoreferenziale.
Ma veniamo agli spettacoli iniziando da “L’ombra lunga del nano”, della compagnia Les Moustaches. Dopo il fortunato esordio di “La difficilissima storia di Ciccio Speranza”, Alberto Fumagalli, mettendo in scena due esistenze in qualche modo borderline, quelle di Olo e Neve (Ludovica D’Auria e Claudio Gaetaniuna), coppia di lungo corso formata da un nano, lavoratore indefesso, e una donna sognatrice, ormai insoddisfatta di una vita sempre uguale a se stessa, racconta in modo poeticamente ironico non come sembrerebbe, di primo acchito, una storia incentrata su due differenze, ma componendo invece uno stralunato elogio dolceamaro alla giovinezza. Una giovinezza che Neve percepisce trasfigurata nell’ombra di Olo, che vede grandissima sul muro di casa e con cui entusiasta interloquisce, riempiendo di desideri l’atmosfera banale di ogni giorno, e a cui Olo volentieri, pur con qualche riottosità, partecipa.
La giovane compagnia qui conferma ottimamente la sua poetica magico-surreale, già sperimentata nel primo spettacolo, con una prova convincente.
Il gruppo bolognese Instabili Vaganti cambia decisamente registro con uno spettacolo di ispirazione nettamente politica, “Lockdown Memory”, su regia e drammaturgia di Anna Dora Dorno e testo di Nicola Pianzola, che entra di petto nel lockdown, ribadendo subito come il consueto leitmotiv del ritorno alla normalità dovrebbe considerarsi obsoleto, perché la normalità che prima vivevamo era davvero imbarazzante, soprattutto per la generazione dei due autori e per un sistema politico, sociale ed esistenziale già in disfacimento, ben prima della pandemia.
Il mezzo teatrale più forte che viene utilizzato non è tanto quello teatrale, che ci pare ancora debole e ripetitivo, ma sono le immagini mostrate che, collegandosi con tutto il mondo, ci propongono aspetti devastanti (e per lo più sconosciuti) che opprimono la società di molte parti del mondo.
A sottolineare il messaggio sono poi i diversi artisti che fanno parte del progetto e che in prima persona testimoniano una normalità assolutamente detestabile: dalle proteste del movimento Black lives matter negli Stati Uniti alla rivolta sociale in Cile, dall’esodo di massa dalle megalopoli indiane sino al ritorno alla supposta normalità in Cina, dopo la tragedia, nella città di Wuhan. E un forte atto di accusa, non tanto sottovoce, arriva anche alla generazione di chi scrive.
Non poteva mancare, a Colpi di scena, un riferimento ai classici.
Dopo aver visitato con accurata e preziosa semplicità “Amleto”, la compagnia umbra Occhisulmondo, in “Il nero”, traduzione e adattamento drammaturgico di Massimiliano Burini e Giuseppe Albert Montalto (dramaturg Giusy De Santis e Matteo Fiorucci), trasporta nella Parigi della strage del Bataclan le notissime vicende scespiriane di Otello, attraverso una messa in scena di raffinata evidenza. Il nome dei personaggi non viene mai esplicitato, se non da maschere che ci suggeriscono il fatto d’essere davanti a semplici persone, con tutti i rispettivi vizi, virtù e debolezze, che vivono in un clima di paura e perdita della sicurezza.
Otello, Iago, Desdemona, Cassio, Emilia e Roderigo diventano quindi un gruppo di persone, una classe dirigente che si ritrova bloccata all’interno di un teatro dove si sta celebrando un matrimonio segreto, mentre fuori dilaga una violenza difficile da contenere.
Come accade alle produzioni appena nate di giovani compagnie, che si sviluppano con nuovi azzardi creativi (tra cui le luci invadenti di Gianni Staropoli, mosse significativamente dalla persona che allude a Iago), lo spettacolo contiene ancora qualche debolezza, ma nello stesso tempo riusciamo a individuare con interessante evidenza tutte le potenzialità e i riferimenti alla contemporaneità che un testo come Otello può ancora suggerire.
Non possiamo non finire con altre due notevoli produzioni, che avevamo già visto in altri contesti ma che qui ci aiutano a monitorare ulteriori possibilità verso le quali la nuova drammaturgia si sta dirigendo.
“Il Problema” di Paola Fresa (con Nunzia Antonino, Michele Cipriani, Franco Ferrante e la stessa Fresa) è incentrato sul tema della malattia: Padre, Madre e Figlia si trovano a dover affrontare l’infermità incurabile che colpisce il Padre. Qui la nudità del dolore, e la sua variegata sopportazione quando la morte si affaccia nella vita di una famiglia, viene raccontata in modo poeticamente forte.
Infine eccoci a “Il defunto odiava i pettegolezzi”, ottimo risultato finale di un variegato percorso che la compagnia emiliana Menoventi ha compiuto intorno al suicidio del poeta russo Vladimir Majakowskij.
A governare – letteralmente – lo spettacolo è la Donna Fosforescente, una delle creazioni più fervide del poeta russo, che ancora una volta dimostra la propria attitudine a proiettarsi verso orizzonti futuri. E’ lei che ci guida attraverso l’intrico di prospettive e ricostruzioni attorno al suicidio del poeta, raccolte da Serena Vitale nell’omonimo romanzo che ha ispirato il progetto.
Cosa successe veramente a Mosca il 14 aprile 1930, nella minuscola stanza di una kommunalka, dove Majakovskij era da poco arrivato in compagnia della giovane e bellissima attrice Veronica Polonskaja, sua amante?
Lo spettacolo ricostruisce ogni possibilità, mettendo in scena certezze e supposizioni, invidie e cambi di pistola, con la presenza anche dei personaggi che accompagnarono quegli ultimi anni, come la sua musa ispiratrice Lilja Brik, i funzionari di partito e i compagni di lavoro.
Gianni Farina concepisce la messinscena uccidendo tutte le connotazioni naturaliste che lo spettacolo avrebbe potuto possedere, e lo fa attraverso continue ripetizioni e correzioni di prospettiva, con un uso davvero inventivo del suono e dell’immagine.
Ne fuoriesce uno spettacolo di grande fascino e sperimentazione, pur nel supposto solco della tradizione, in cui ogni segno teatrale è studiato nei minimi dettagli anche attraverso una cura figurativa di grande risalto.