Nel momento in cui la parabola discendente dei finanziamenti al teatro mette in discussione l’arte scenica come bene pubblico diventa necessario un riesame del sistema e della sua ossatura istituzionale – gli Stabili, appunto.
Proprio questo 2010/2011 è l’anno di due iniziative volte a ripensare il modello della stabilità: quella condotta da Antonio Latella al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, e quella appena annunciata da Paolo Magelli alla direzione artistica del Teatro Metastasio di Prato. Punto comune, la nascita di una compagnia composta da un organico fisso, impegnata nelle produzioni.
Avendo assistito alla presentazione di entrambi i progetti a distanza di mesi, in un dossier di due parti cercheremo di ricomporre stimoli e riflessioni in un discorso a due tappe, con una precisa triangolazione geografica: Toscana-Sardegna-Campania.
Cominciamo con “Compagnia stabile e affinità elettive. Una sfida alla crisi”, l’incontro tenutosi al Metastasio lo scorso 26 marzo, coordinato da Mimma Gallina e introdotto da Andrea Porcheddu. Il teatro pratese, insieme allo Stabile della Sardegna, ha organizzato la giornata per discutere con direttori, artisti, organizzatori sul senso della stabilità e sulla sua diffusione nel nostro sistema.
L’affinità tra Toscana e Sardegna riguarda la relazione nascente tra le compagnie all’interno delle rispettive strutture: quello sardo è un caso di corrispondenza tra ensemble e stabile, fondato su una storia pluridecennale, con attori-soci del Teatro Cooperativa. A Prato invece la compagnia è stata costituita attraverso apposite selezioni, e ha recentemente debuttato in “Giochi di famiglia“; i suoi componenti – Valentina Banci, Francesco Borchi, Elisa Langone, Mauro Maliverno e Fabio Mascagni – saranno impegnati con un contratto annuale per la stagione 2011/2012. La nuova formazione promossa da Magelli si incontrerà con quella di lunga durata dello Stabile sardo, diretta da Roberto De Monticelli, anche per condividere una politica di repertorio.
Questo il progetto avviato dal Metastasio, che vedrà il coinvolgimento di altri registi per le produzioni di compagnia; scelta che conduce al confronto con alcuni nodi irrisolti della nostra scena.
La storia degli Stabili italiani assomiglia a un sogno artistico-organizzativo rimasto a metà, smarriti nel tempo i tasselli che legavano i primi teatri a finanziamento pubblico ad altrettante compagnie: una rivoluzione (mancata) rispetto al nomadismo delle tournée. Progressivamente sono state le compagnie e i gruppi, esterni alle strutture, a fondare il proprio lavoro teatrale su lunghe condivisioni personali, mentre la continuità degli Stabili si è trasposta sull’apparato, sulla durata della nomina direttiva, sul regista-guida. Tornare a ‘le stabili’ femminile plurale – come scrive Mimma Gallina – può essere la strada per recuperare l’impulso originario, declinandolo alle esigenze presenti?
La malattia che affligge i Teatri Stabili non è un mistero; di tanto in tanto se ne discute per cercare una cura, se ne denunciano i sintomi e le cause: così ad esempio fa Mario Martone per le Buone Pratiche dello scorso febbraio, scrivendo di stagioni costruite sugli scambi e produzioni per lo più basate su ricette autocensorie e senza rischi.
Ripercorrendo fasi e percorsi del teatro pubbico, tra regia, gruppi e teatro d’attore, Porcheddu ricorda come vari direttori artistici abbiano perseguito la presenza di una compagnia stabile, di fatto senza riuscirci (Walter Le Moli a Torino prima, Valerio Binasco all’Eliseo poi), e pone interrogativi sulle criticità della scelta.
È chiaro che un ensemble duraturo consente di approfondire e rimodulare le dinamiche della creazione, sviluppando un terreno condiviso di esperienze; è insomma l’incubatore per la crescita del linguaggio artistico. Per l’attore italiano, storicamente obbligato a vita nomade ed economicamente incerta, la stabile sarebbe non solo una ‘casa’ sicura, ma anche l’assunzione di una nuova identità pubblica riconoscibile, in quanto portatrice privilegiata dei discorsi di un teatro alla sua comunità.
Eppure, pensando alla compagnia come ‘strumento della durata’, Gabriele Vacis ricorda che “non si costruisce con strategie organizzative se non c’è una scintilla originaria”, una motivazione artistico-progettuale che tiene insieme un nucleo di artisti. Se la durata del percorso condiviso è un valore, anche la flessibilità dei sodalizi, l’incontro di artisti al di fuori del proprio gruppo di lavoro costituiscono occasioni di arricchimento, come nota Maria Grazia Cipriani. La regista e direttrice del Teatro del Carretto insiste soprattutto sulla difesa del repertorio, cioè su una tenuta prolungata degli spettacoli in stagione e una longevità delle produzioni negli anni. Una prospettiva che il teatro italiano non ha mai conquistato, salvo rare occasioni, e che è invece prassi abituale altrove, da Londra a Vilnius.
D’altra parte il modello mitteleuropeo più volte citato, come la dimensione di Zagabria testimoniata da Sonia Kovacic, si inserisce in economie ed equilibri produttivi che, nella situazione italiana, suonano incommensurabili.
Posto che il Teatro Stabile dovrebbe essere luogo per eccellenza di costruzione continua della civiltà teatrale, il nodo da dipanare riguarda il rapporto mercato/esigenze della creazione artistica. In questo senso Cesare Lievi, facendo riferimento alla propria esperienza, esalta il sistema tedesco: per l’autonomia dalla politica che assicura agli artisti; per il valore riconosciuto al teatro come strumento di comprensione del reale; per la stanzialità che diventa anche antidoto ai condizionamenti delle preoccupazioni distributive.
Investendo sull’ensemble, le creazioni degli Stabili potrebbero rispondere al dialogo specifico che si costruisce con il territorio, con il pubblico attivo e quello potenziale, mettendo da parte gli obiettivi della circuitazione. Al tempo stesso, il rischio da scongiurare è quello di un’ulteriore impermeabilità della struttura nei confronti di ciò che nasce altrove, di gruppi e compagnie già fin troppo esclusi dal salotto buono, come pure la chiusura in un orizzonte localistico. La regista Cristina Pezzoli interviene in proposito notando come nella situazione attuale si sia giunti a una saturazione del mercato, a un’offerta di produzioni che supera la domanda: forse sarebbe il caso di ripartire riallacciando gli interlocutori del discorso scenico, chiedendosi a chi si sta parlando e di che cosa parlare. Un’urgenza che l’ha spinta, insieme alla drammaturga Letizia Russo e altri, a scegliere lo Spazio Compost a Prato, una sala in cui sperimentare e recuperare un contatto diretto con la città.
La stabilità intesa come rapporto continuativo con un luogo e chi lo abita, così che la creazione teatrale sia anche riattraversamento di vite, esperienze, condizioni: è il caso esemplare di Armando Punzo al carcere di Volterra, ma anche quello recente della regista Veronica Cruciani, impegnata da tre anni nel progetto del Teatro di Roma intorno ai Teatri di Cintura.
Tuttavia gli attuali parametri – sia in fatto di normativa ministeriale sia in campo amministrativo – sono agganciati a un’idea di impresa teatrale che premia la quantità degli spettacoli prodotti e il numero delle giornate di replica, senza descrivere tempi e modi di un lavoro d’ensemble costante e continuativo.
Come fanno notare Alessio Bergamo e Maurizio Schmidt, un obiettivo prioritario per i teatri stabili sarebbe rimettere al centro il processo piuttosto che il prodotto-spettacolo, il confronto dei metodi, in una dialettica feconda regista-interprete che non si limiti alla messa in scena, ma promuova la formazione continua, dando all’attore lo spazio e gli strumenti necessari per il lavoro su di sé. Oggi la mancanza di luoghi a disposizione per lo studio e l’esercizio dell’attore si accompagna alla mancanza di tutele (irrisori ammortizzatori sociali), in balia delle regole scritte e non scritte del mercato. Anche Porcheddu osserva senza giri di parole che “oggi siamo arrivati al paradosso che per lavorare i giovani attori devono pagare lunghi laboratori che servono solo per accedere al provino, con la consapevolezza che le scelte sono già state fatte”, finanziando così indirettamente le produzioni, “pur di farsi vedere dal regista”.
Per uscire dalle contraddizioni sarebbe necessaria insomma una riforma complessiva, in cui la stabilità della compagnia – intesa come processo di costruzione e crescita delle persone – trovi adeguata corrispondenza in campo contrattuale e contributivo. Senza dimenticare però che la casa-Stabile, soprattutto se pubblica, non andrebbe ‘posseduta’, ma abitata in modo da essere centro propulsore anche per altre dimensioni, nutrendo la fecondità delle differenze. Anche perché una presenza di lunga durata sviluppa dinamiche di appartenenza, ma non è di per sé garanzia di inviolabilità: così sarebbe legittimo che la stabilità nella casa pubblica fosse verificata in modo trasparente.
Un modello organizzativo efficace dovrebbe esprimere necessità artistiche: non a caso, negli anni della nascita, la battaglia per la fondazione del teatro pubblico e il suo nesso con la stabile corrispondevano all’esigenza di affermare un nuovo modo di fare teatro, di concepire i rapporti tra testo e spazio scenico, portato avanti da giovani ‘rivoluzionari’ alla soglia dei trent’anni, come Strehler e Grassi, per non dire di Squarzina, De Bosio, Ivo Chiesa… Oggi resta da risolvere il rapporto tra l’Istituzione e l’evoluzione dei linguaggi, che tocca in senso trasversale due o tre generazioni di attori, registi, performer, e dunque una molteplicità di pratiche e poetiche: una casa stabile che manca l’incontro con le realtà contemporanee finisce per perpetuare variazioni sul già noto, e per mancare la relazione tra istanze creative e pubblico. Esistono negli Stabili casi virtuosi di sostegno a artisti e compagnie (più o meno giovani all’anagrafe) che costruiscono la rappresentazione in modo diverso dai paradigmi consolidati: come incrementare questo dialogo coniugandolo alla ‘stabile’?
A Prato il percorso comincia avviando iniziative ulteriori: da un lato la Scuola di formazione per giovani attori, dall’altro un dialogo con compagnie giovani del territorio, costituendo anche un piccolo laboratorio di critici osservatori per la rassegna in scena nella sala del Magnolfi Nuovo. Per la prossima stagione la compagnia sarà diretta da diversi registi – tra cui Massimo Castri, che col Metastasio ha un rapporto di lunga durata; si avvierà inoltre l’incontro tra l’ensemble pratese e quello della Sardegna, con laboratori e coproduzioni.
L’augurio è che il coraggio prevalga sulle istanze conservatrici, e non si vanifichi tutto nel ricordo di belle parole.