Il testo di Paulin Peyrade, vincitore dell’Ubu 22, viene interpretato da Ermelinda Nasuto e Danilo Giuva
“Se domani non torno, distruggi tutto”. In questi giorni, in cui in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin, è girata tanto questa frase della poesia di Cristina Torres Cáceres, abbiamo riflettuto su quali possano essere i modi davvero dirompenti per reagire al problema della violenza sulle donne.
Lo spettacolo “Con la carabina”, vincitore di due premi Ubu nel 2022 – miglior regia a Licia Lanera e miglior testo straniero/scrittura drammaturgica per il testo della giovane drammaturga Pauline Peyrade – è dirompente, e non solo per le tematiche che tratta.
La vicenda, ispirata dalla cronaca, è quella di una ragazzina poco più che bambina (Ermelinda Nasuto) sottoposta a una violenza sessuale da parte di un adolescente (Danilo Giuva), amico di famiglia.
In scena due piani temporali si alternano: quello della sera in cui accadde il fatto in un Luna Park, e quello del futuro in cui la ragazza, ormai diventata donna, rapisce il colpevole per vendicarsi, sottoponendolo a violenze fisiche sotto la minaccia di una pistola.
È direttamente nell’incontro al Luna Park che il pubblico viene introdotto al momento dell’ingresso in sala, appositamente ritardato fino all’inizio dello spettacolo, in modo da creare una sensazione voyeuristica, in cui sentirsi dal primo momento a disagio, anche per la scelta di rappresentare la pièce soltanto in teatri molto piccoli, per azzerare barriere e distanze tra questa situazione intima e disturbante e gli spettatori.
Nella stessa ottica alla fine verranno impediti gli applausi, e il pubblico fatto uscire con gli attori ancora in scena.
Lo stile stesso scelto per la recitazione crea una sensazione di intimità e riesce, sicuramente anche per il lavoro del traduttore Paolo Bellomo, a calare senza problemi il testo d’origine francese in un familiarissimo contesto di una qualsiasi provincia del sud Italia.
La scenografia è molto spoglia: un tavolo con sopra una piccola ruota panoramica, due sedie, due luci a piantana che gli attori spostano man mano che le scene si susseguono, con un effetto che diventa sempre meno confortevole per gli spettatori, fino al culmine delle luci accecanti sparate direttamente negli occhi, coerentemente con il crescendo della violenza che viene esposta in scena.
Un crescendo che è sapientemente orchestrato e crea continue note distoniche: il tono leggero e scanzonato dei due ragazzini al primo incontro al Luna Park non viene scalfito dall’atmosfera lugubre, tesa e ansiogena creata dalle luci e dai suoni curati da Francesco Curci, e rimane sempre credibile. Questo provoca negli spettatori sensazioni opposte e un continuo stato di allerta, la sensazione che da un momento all’altro possa succedere qualcosa di terribile. Questi sentimenti contrastanti riguardano anche l’empatia che, anche grazie all’ottima interpretazione di Danilo Giuva, il pubblico è portato a sentire verso il protagonista maschile, che è costruito per apparire anche simpatico, un “ragazzo come tanti” che poi finiranno protagonisti delle cronache.
La tensione trova il suo culmine nel confronto – indicibile e però inevitabile – tra le due differenti violenze che vengono proposte in scena, e nel continuo ribaltamento tra i ruoli di vittima e carnefice. La tensione generata da questo confronto viene magistralmente costruita attraverso un testo capace di scavare a fondo nei personaggi, senza bisogno di appesantirsi e, grazie alle scelte della messa in scena, rappresenta il punto di forza fondamentale dello spettacolo e del suo modo di parlare di violenza di genere.
Infatti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, vedere in scena una donna vittima di violenza che si rende protagonista a sua volta di un intollerabile e disturbante atto di violenza sul suo carnefice, non distoglie l’attenzione dal messaggio sulla violenza sulle donne ma al contrario lo amplifica.
In quella provincia, uguale a tutte le province, una ragazzina viene affidata dalla madre alle cure di un amico del fratello. Capiamo che, a lui, lei piace. Forse, nel modo che consente la sua età, lei un po’ lo ricambia. Lui stesso è un adolescente insicuro. Si sente in competizione col fratello di lei. Non ne capisce del tutto i segnali. Ma anche per questo si sente fragile e ha bisogno di ripristinare il predominio: su di lei, su suo fratello, sulle proprie insicurezze.
Lo fa gradualmente, ma invadendo da subito il suo spazio fisico, e successivamente buttando su di lei e su leggi naturali superiori le responsabilità (“odio le ragazze che fanno finta di non sapere che sono ragazze”). Questa violenza incrementale, che inizialmente ha un volto gentile, avviene in un contesto a tinte molto meno nitide rispetto a quella che vedremo nel futuro, in cui l’uomo verrà rapito, legato, sanguinante, piangente e totalmente nelle mani della sua rabbiosa aguzzina.
Ma proprio perché questo secondo atto di violenza ha una chiave di lettura visivamente travolgente e univocamente interpretabile (il desiderio di vendetta è, a livello concettuale, molto più lineare), rende lampante il problema principale dell’altro tipo di violenza: ovvero che sia più nascosta e nascondibile, più socialmente accettabile, meno riconoscibile, perfino dalle sue stesse vittime. Come se la luce puntata sulla violenza col sangue che sgorga, costringesse invece a portare l’attenzione a quella delle ferite senza sangue, quelle che, se esibite, in un certo senso indeboliscono chi le ha ricevute e non chi le ha perpetrate. Tanto che la ragazza, dopo la violenza, riporta giudizi giuridico-sociali sul fatto che, in fondo, “non ci sono stati né minaccia, né sorpresa, né forza” oppure che “lui è un ragazzo per bene, si merita una vita rovinata solo per questo?”.
Ciò colpisce perché risveglia la consapevolezza che siamo state spesso noi donne, dentro la nostra testa, le prime voci assolutorie verso l’altro in situazioni limite dal punto di vista del consenso. Perché – come dice la protagonista – per sapere cosa si vuole, bisogna essere in grado di capire cosa si può volere. E invece quasi sempre non vengono dati gli strumenti. Le conoscenze. I modi. Spazi sicuri in cui parlare di sessualità quando non è troppo tardi.
La bambina che sognava il coniglio di peluche del tiro a segno, e invece si ritrova nella sua cameretta con in braccio una carcassa di coniglio scuoiata mentre Billie Eilish canta a tutto volume, nella scena più potente di tutto lo spettacolo, rappresenta perfettamente tutto quello che si perde, che si rompe dentro, che viene ferito proprio lì, sotto i vestiti e oltre la pelle, quando i propri confini vengono violati perché, senza aspettarselo e senza neanche averlo ben capito fino in fondo, si finisce per trovarsi zone in cui l’umanità delle donne è momentaneamente sospesa e ruoli antichi di predominio si ristabiliscono.
Che si tratti di violenza sessuale, psicologica o verbale, o di femminicidio, questa radice rimane. E spiega il prima in cui lui era gentile, le ha offerto lo zucchero filato, ha sorriso e scherzato. E spiega il dopo in cui tutto viene ricomposto e si può anche, di nuovo, scherzare e sentirsi amici di famiglia.
Tutto questo, nell’Italia di oggi, è dirompente e per questo crea negli spettatori una sensazione di vulnerabilità. Ci si sente vulnerabili agli sguardi ravvicinati, alle luci accecanti, alle pistole puntate e ai gesti violenti. Vulnerabili a verità su se stessi verso cui si preferisce non guardare.
Vulnerabili perché si viene colpiti da una voce artistica regolata su un volume molto alto. In cui magari non tutti i dettagli sono sempre perfetti, ma in cui il messaggio arriva forte e trasforma chi lo riceve. In cui sul palco si spingono i limiti. Ci si gioca tutto. Si colpisce forte.
È così che ci pare di poter interpretare la voce di Licia Lanera, che sembra in questo senso una voce senza paura, intesa non come assenza di fragilità, ma come forza di volersi far sentire. Senza timore di guardare ogni spettatore negli occhi al momento dell’uscita dalla sala.
Il 5 e 6 dicembre al Duende Festival di Brescia.
Con la carabina
di Pauline Peyrade
con Danilo Giuva e Ermelinda Nasuto
regia e spazio Licia Lanera
traduzione Paolo Bellomo
luci Vincent Longuemare
sound design Francesco Curci
costumi Angela Tomasicchio
aiuto regia Nina Martorana
organizzazione Silvia Milani
produzione Compagnia Licia Lanera
in coproduzione con POLIS Teatro Festival
in collaborazione con Angelo Mai
si ringrazia E Production
foto di Clarissa Lapolla
lo spettacolo è consigliato a spettatori dai 14 anni
durata: 50’
Visto a Bologna, Teatro delle Moline, il 26 novembre 2023