Riflessioni sul festival Contemporanea 2011 di Prato: dalla relazione con i luoghi della città al ricorrere del cibo in molti spettacoli
A due settimane dalla fine di Contemporanea Festival 2011, sono due gli aspetti che ancora mulinano nella testa: la geografia del festival pratese e la presenza ricorrente del cibo in molti spettacoli.
Ecco allora uno spunto per qualche riflessione postuma.
Osservando la planimetria dei luoghi di Contemporanea si percepisce che il cuore della città di Prato è in rete con le zone periferiche, con i magazzini convertiti in teatro, come il Fabbricone di ronconiana memoria, gli spazi di archeologia industriale quali Officina Giovani, oppure la bella costruzione che ospita il Teatro Magnolfi, con la foresteria per gli artisti.
Percorrendo con lo sguardo, dall’esterno all’interno, i molteplici spazi si disegna una spirale, che non trascura nessuno dei punti cardinali, e ha il suo inizio nel Teatro Metastasio, cuore nel cuore.
Con ali che hanno la forza e la leggerezza dell’arte, Contemporanea è riuscita a racchiudere in un abbraccio tutta la città, creando un dialogo osmotico tra antico e nuovo in una dimensione metropolitana qualificante, in cui le mura medioevali senza soluzione di continuità si trasformano in cemento, un edificio rinascimentale in fabbrica, e viceversa.
Contemporanea si è installata in modo diffuso in una geografia fisica edificando contemporanea-mente una geografia artistica. Una città tessile che ha tessuto una trama di spettacoli e performance nell’ordito cittadino, con una dimensione identitaria frattale: l’uno conteneva il tutto.
Artisti e pubblico, non solo addetti ai lavori (il limite e la sfida per ogni festival), sono state le sinapsi che hanno trasmesso dentro e fuori Contemporanea e dentro e fuori Prato impulsi vitali.
E per un festival, non è così scontato farlo accadere.
“Questa sera qui ci unisce la pizza” ha gridato ripetutamente uno dei performer nel clownesco e filosofico spettacolo inaugurale “Suis à la messe. Reviens de suite” della compagnia svizzera L’Alakran-Oskar Gómez Mata, prima offrendo e poi lanciando pizze sugli spettatori divertiti e/o irritati. E di pane ci si ingozzava nel bellissimo spettacolo di chiusura “La Vita Cronica” di Eugenio Barba-Odin Teatret. Passando per il cous-cous danzato e lanciato di “Je danse et je vous en donne à bouffer” della compagnia tunisina Soi- Radhouanel El Meddeb.
E, ancora, il pasto di “The secret room” di Cuocolo-Bosetti /Iraa Theatre, performance che si è svolta in una abitazione privata, la cena con cibi squisiti di “Matrimonio d’inverno” del Teatro delle Ariette.
Insomma, il cibo non è una novità nel teatro. Basti pensare alla scena del banchetto nel “Macbeth”, ai biscotti di cui sono voraci i genitori nel bidone in “Giorni Felici” di Beckett, il “Calapranzi” di Pinter oppure il pranzo rovinato in “Filumena Maturano”, solo per citare alcuni esempi classici. All’interno di questi spettacoli, tuttavia, il pranzo e il cibo sono uno dei tanti elementi interni al testo, e il cibo spesso è solo citato, mimato, o finto. Polli di gomma, tavole deserte, zuppiere vuote.
Al contrario, negli spettacoli visti a Contemporanea esso è stato innanzitutto ed inequivocabilmente vero, rivestendo un ruolo attivo nella sua matericità. Nutrimento vitale e simbolo di guerra e carestia ne “La Vita cronica”, elemento identitario nello spettacolo sinestetico di El Meddeb, rito intimo di condivisione in “Matrimonio d’inverno”, citazione provocatoria in “Suis à la messe. Reviens de suite”…
In “Matrimonio d’inverno”, ad esempio, il cibo è struttura drammaturgia e il pubblico, grazie alla presenza del cibo, diventa “assistente” e “attore” nella messa in scena. È invitato a prendere parte ad una cena, ossia a mangiare. Entriamo in una cucina fittizia e tanto più autentica, ci sediamo attorno a un tavolo sobriamente imbandito. Con la minuzia del gesto, gli attori preparano i tortellini, il bollito, la salsa verde, la zuppa inglese. Sentiamo il rumore dell’acqua che bolle in pentola, l’odore del prezzemolo battuto, del pomodoro spezzato, dell’uovo e del latte che diventano crema, mentre nei nostri orecchi si disfa il racconto ovattato, commovente di un matrimonio felice, nella poesia di diario in cui si fondono la contemplazione della natura, la nostalgia di un tempo inesorabilmente passato, l’impegno di un fare teatro che ha l’economia del gesto del prendersi cura della terra amata. Siamo parte, mangiamo parole come mangiamo il pane fragrante, sentendo che non possono che farci bene.
Il simbolismo del cibo si ritrova sotto differente forma nella parabola post bellica de “La Vita cronica”. Dedicato alle scrittrice russe Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, lo spettacolo si svolge nel 2031, dopo una terza guerra civile.
Una Madonna Nera, la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un musicista rock delle isole Faroe, un ragazzo colombiano che cerca suo padre scomparso in Europa sono alcuni dei personaggi che portano in scena il loro carico di disperazione tra guerre, disoccupazione, emigrazione.
Nella complessità di un drammaturgia costruita sulla pluralità di linguaggi scenici, il plurilinguismo, la simultaneità di situazioni e azioni, partecipiamo a un esempio raro di teatro totale, che ci coinvolge completamente, fino quasi allo stordimento. Il cibo, anche in questo caso nell’essenzialità del pane, passa di bocca in bocca, di mano in mano, strappato a morsi, mangiato voracemente, fino quasi a soffocare, sputato, a ricordarci la tragicità della vita.
In un teatro contemporaneo che vuole essere nutrimento dei sensi e della mente, e in un momento storico in cui la povertà materiale e di pensiero è tangibile, non sembra casuale che una pluralità di artisti portino in scena (e un festival proponga) creazioni costruite in modo più o meno radicale attorno alla presenza di cibo reale. La necessità vitale del cibo richiama la spiritualità di un rito, in cui l’elemento di condivisione, il sentimento della partecipazione a una cerimonia politica, fragile, ha continua necessità di ricostituirsi nel presente.