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Il Coriolano di Mamimò: è la demagogia, bellezza

Photo: Nicolò Degl'Incerti Tocci

Photo: Nicolò Degl'Incerti Tocci

William Shakespeare ha sondato il potere in tutte le sue sfaccettature: come violenza e inganno nel “Mercante di Venezia” o in “Misura per misura”; come tirannia in “Giulio Cesare”; come solitudine che porta al suicidio in “Cleopatra”; come incertezza in “Amleto”; come invidia che annichilisce in “Otello”; come sovvertimento di ogni valore costituito in “Re Lear”; infine come violenza primordiale in “Macbeth”.

Chi volesse avere un saggio delle tecniche di demagogia e populismo, dovrebbe invece vedere il “Coriolano”. Che nella versione rivisitata in chiave contemporanea di MaMiMò focalizza l’attenzione sull’arte della manipolazione. Nell’era della bulimia informativa, avremmo tanti strumenti per smascherare gli inganni. Invece, mai come nella nostra epoca la politica plagia le nostre menti, inibisce la nostra capacità critica e parla alla nostra pancia.

La parabola di Caio Marzio detto “Coriolano”, soldato, comandante, senatore romano, è una metafora delle contraddizioni della democrazia: Coriolano eroe, reietto, infame, redento; Coriolano in rovina, proprio quando si percepisce nel bel gesto di salvatore della patria.

Un contorno geometrico sembra delimitare il palco del Teatro Fontana di Milano, dandoci l’illusione di uno spazio ristretto. Invece l’intera sala diventerà scena, mandando in frantumi ruoli e quarta parete, adulterando ogni distinzione tra attori e spettatori, risucchiati nell’azione drammaturgica.

Ad avviare la vicenda è uno sbuffo elettronico, note techno puntiformi. Siamo nel mezzo di una sommossa, con tanto di tute gialle, guanti in lattice, passamontagna e manganelli: l’esercizio della democrazia, il diritto di parola, a volte si traduce in prepotenza.
Menenio (Luca Cattani) è un imbonitore che cerca di placare i rivoltosi, verso cui Coriolano si mostra sprezzante.
Luci da studio tv. Personaggi d’assalto in giacca e cravatta: fanno tanto venditore porta a porta, ma anche iene televisive, ipocrisia da politici arruffapopoli.
Quella che il regista Marco Plini mette in scena è una prassi politica che ricalca i peggiori difetti dei nostri leader di partito: la ricerca del sostegno delle masse, la piaggeria verso aspirazioni irrazionali ed elementari della folla, distolta dalla reale e cosciente partecipazione attiva alla vita politica.
La piazza è eccitata, soggiogata grazie a espedienti oratori e psicologici studiati ad arte. Gli umori, le esigenze immediate, sono interpretati, plagiati da una forza esterna carismatica che non tiene conto, se non in forma superficiale e grossolana, dei reali interessi della collettività. È la massa stessa a rinnegare la propria natura, a imporsi sul legittimo potere costituito e sulla legge, facendo valere le proprie istanze immediate e incontrollate.

In questa tragedia del 1607 Marco Maccieri è un Coriolano irruente e arrogante: da una parte desideroso di limitare i diritti di un popolo bue; dall’altra, sorprendentemente disposto a cedere alle velleità e alle richieste di Volumnia, una madre malefica, una dark lady pervasiva, persuasiva e perversa (Valeria Perdonò).
Svariati sono gi escamotage registici attraverso cui i meccanismi del potere vengono sviscerati da Plini, riportati alla loro dimensione di calcolo algido e spietato: immagini vintage di un neonato cristallizzato nel suo gioioso candore infantile; momenti di recitazione espressionista; sequenze da discoteca, occhiali e cravatte fluorescenti, megafoni ad amplificare la voce; animazioni; sequenze di gruppo o primi piani ripresi con una telecamera in presa diretta; comizi; inquadrature del pubblico proiettate sullo sfondo; interventi carpiti ai singoli spettatori. Le stesse luci di scena sono disegnate da Fabio Bozzetta con intento manipolatorio.

È la spettacolarizzazione dell’agone politico. La fame di potere si fa ingordigia, la determinazione diventa follia, la parola si tramuta in recitazione. Aleggia una sottile ironia. Le emozioni lasciano il posto allo stupore.
È una regia fredda. È l’apoteosi (un po’ narcisistica) della tecnica teatrale. Non è sfoggio fine a se stesso, però. Plini infila il dito nelle infinite piaghe di una democrazia che è confusione e adulazione, anarchia e massificazione. Anche lo spettatore smarrisce la propria individualità, risponde all’angosciosa insicurezza e alienazione che lo attanaglia, cerca nel gruppo e nei condizionamenti esterni improbabili scelte di rottura.

In ultima istanza, MaMiMò mette in luce il rapporto sadomasochistico che presiede al collegamento tra demagogo e massa. La massa s’identifica con il leader come momento di esaltazione individuale e collettiva, regredisce all’accettazione supina della sottomissione. L’esito, il più delle volte, non è un processo virtuoso di democratizzazione, ma l’instaurazione di un regime autoritario.
Oltre ai citati Maccieri, Cattani e Perdonò, completano l’ottimo cast Giusto Cucchiarini, Cecilia Di Donato e Marco Merzi.

CORIOLANO
di William Shakespeare
adattamento e regia di Marco Plini
con Marco Maccieri e con Luca Cattani, Giusto Cucchiarini, Cecilia Di Donato, Marco Merzi, Valeria Perdonò
aiuto regia Thea Dellavalle e Angela Ruozzi
disegno luci Fabio Bozzetta
costumi Nuvia Valestri
video editing e live shooting Samuele Huynh Hong Son
i costumi dei senatori romani sono abiti Luigi Bianchi Sartoria, Mantova
produzione Centro Teatrale MaMiMò con il sostegno Marco Merzi della Fondazione I Teatri

durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 2’ 50”

Visto a Milano, Teatro Fontana, il 21 marzo 2018

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