232: questo il numero degli enti culturali, tra teatri, accademie, associazioni, musei, a cui il Governo taglia i fondi.
L’articolo 7 comma 22, nonostante i dubbi espressi nel maggio scorso dal presidente Napolitano e dallo stesso ministro dei Beni culturali Bondi, fa parte della mega manovra finanziaria attuata quest’anno in Italia.
Come ben sappiamo, stavolta non ci vanno di mezzo solo i lavoratori, le aziende, le fabbriche, ma anche e soprattutto la cultura.
Dalla riforma della Scuola agli attuali scioperi di assistenti e dottorandi universitari, si arriva anche a mozzare le gambe a ricerca, cultura e spettacolo.
È ormai storia sentita che le piazze si riempiano di attori, registi, scrittori, maestranze che operano nel settore spettacolo, lavoratori di questo ambiente, e impiegati di musei ed enti culturali. Per non parlare delle facce note che sfilano in primo piano, rendendosi conto della situazione di disagio che la cultura sta attraversano.
Napoli, così come Roma e altre grandi città simbolo della cultura italiana, decide di sfilare elegantemente dando voce ad una miriade di giovani e meno giovani presenze artistiche che, nella città partenopea, hanno cominciato a calcare i palcoscenici sin da bambini.
Il corteo funebre organizzato il 29 settembre scorso a Napoli nasce dalla volontà del giovane attore Pietro Pignatelli, sostenuto dal coro di dissensi innalzato a gran voce dal regista Carlo Cerciello insieme a Lello Serao, Manlio Santanelli, Isa Danieli e tanti attori di grandi e piccole compagnie teatrali.
Si uniscono al pacifico serpentone di teatranti vestiti di nero con cerone bianco sul viso, anche alcuni esponenti di compagnie amatoriali, oltre ai dipendenti del Museo Madre di Napoli, in attesa di possibile e probabile chiusura, e alcuni dei più importanti critici teatrali napoletani e italiani.
La bara di legno, aperta, vuota e tappezzata con fogli di copioni e di libri sfila, spoglia e povera. Un simbolo doloroso che gira per la città seguito da uno scheletro in cartapesta, grottesco, medievale, ma efficace per chi guarda e non ha ancora compreso bene la situazione. Forse un invito a capire.
Una manifestazione silenziosa, apartitica, dettata dall’arte, dalla voglia di lavorare ancora sulla scena e dalla volontà di non far sprofondare il popolo italiano in una cultura infima e di stampo unicamente commerciale.
Dietro alla scena teatrale vivono e lavorano diversi settori legati a questo mondo, dai tecnici agli scrittori, agli uffici stampa, a giornalisti, critici e molti altri.
Chiudere i battenti significa distruggere il sogno artistico italiano e distruggere numerosi posti di lavoro. Ma significa soprattutto far crollare il primato culturale dell’Italia.
Uno Stato è in grado di crescere grazie anche all’apertura mentale di un popolo che, qualora venga invece derubato di cultura e arte, diventa debole, facilmente plasmabile, omologato. Non bisogna essere esperti di politica o di evoluzione sociale per comprendere gli effetti che questi tagli potrebbero avere sullo sviluppo di un popolo
Il 29 settembre la Galleria Umberto di Napoli è diventata così anfiteatro a cielo aperto dove, oltre alle parole degli esponenti teatrali, si sono aggiunte quelle di un lavoratore del Madre, e forse sono proprio quelle che colpiscono di più. In questo campo non si producono bottoni o generi di prima necessità, è vero. Si produce però cultura, sogni, sviluppo sociale che influenza lo sviluppo intero di uno Stato.
Tra gli applausi amari di giovani, curiosi, giornalisti e teatranti, il corteo pacifico si conclude, mentre proprio davanti alla Galleria Umberto, l’entrata del Teatro San Carlo, è stretta tra due catene a cui è appeso un umile cartoncino: “chiuso per tagli”.
In città incombono i cartelloni delle campagna d’abbonamento 2010/11, “ma – cantava qualcuno – qualcosa ancora qui non va”.