Il Centro Teatrale La Soffitta, in collaborazione con l’Università di Bologna, ha dedicato due giorni alla performer, danzatrice e coreografa Cristina Rizzo, nell’ambito del progetto Danza 2011. Due giorni densi in cui si sono alternati altrettanti spettacoli,“Dance n.3” e “Invisible Piece”, un workshop e un incontro col pubblico.
L’intervista con Cristina Rizzo è fissata proprio al termine dell’incontro “Parole del corpo”, a cura di Elena Cervellati, a cui hanno partecipato anche gli studiosi che hanno seguito la creazione dei due lavori in scena a Bologna: Lucia Amara, Elisa Fontana e Stefano Tomassini.
Vale davvero la pena spendere due parole su quello che, a tutti gli effetti, può essere chiamato incontro, per la vitalità e la partecipazione che lo hanno caratterizzato.
Il lavoro di Cristina Rizzo è stato il punto di partenza e quasi un pretesto per una riflessione ricca di stimoli non solo nell’illustrare un percorso artistico e individuale coraggioso e pieno di senso, ma anche per ragionare sulle modalità di un processo creativo e sulla contaminazione di punti di vista.
Non è stata una riflessione teorica, piuttosto il racconto ragionato di una pratica, di un percorso di lavoro che ha prodotto due spettacoli.
“Per lavorare nel contemporaneo bisogna essere militanti” ha affermato Stefano Tomassini: una buona descrizione dei diversi interventi, capaci di costruire, ognuno dal proprio punto di vista, un discorso comune. Quale che sia il ruolo – artista, critico o teorico: il senso di questa militanza ha a che fare con la qualità di una partecipazione.
L’incontro più che preludio all’intervista propriamente detta ne è parte integrante. Ci sono dei nuclei forti nel lavoro e nella proposta di Cristina Rizzo per cui si ha la sensazione di partecipare a uno scambio, articolato in modo vario, e soprattutto in divenire.
La prima domanda riguarda “Dance n.3”. Ha come punto di partenza materiali di varia natura: libri, titoli di film e di canzoni, nomi e immagini che hanno generato una prima scrittura coreografica. Il risultato del lavoro, incentrato sulla parola che dà origine al gesto, è stato poi passato a tre coreografi (Eszter Salamon, Michele Di Stefano e Matteo Levaggi) per poi essere reinterpretato nuovamente da te, in forma di tre assoli. A chi appartiene “Dance n.3”?
Senz’altro questo progetto mette in campo la questione di cui parli, ma non è la questione principale. Il punto non è tanto mettere in discussione l’autorialità, non nei termini di chi è autore di che cosa. Questo per me è un discorso già assorbito. Sono stata uno dei fondatori di Kinkaleri, ho lavorato in una dimensione di collettività per dieci anni, firmando ogni lavoro col nome del collettivo. La domanda forse riguarda maggiormente che cosa fa l’autore, come lavora. Nelle proposte che faccio, in “Dance n.3” o in “Invisible Piece”, c’è una mia presa di posizione in quanto autrice. Ma quello su cui sto riflettendo in questa fase del mio lavoro riguarda la contemporaneità, la dimensione politica di quello che si fa, in un senso ampio. Non c’è un rimando all’idea di teatro politico, mi interrogo piuttosto su quale sia la postura politica che assumo in quanto persona che abita il mondo. Come i miei desideri entrano in comunicazione con i desideri degli altri. In questo senso “Dance n.3” ha fatto emergere la questione della negoziazione, della possibilità di aderire al pensiero di un altro, dei tre coreografi con cui ho lavorato, trasformandolo in uno scambio reciproco.
Fin dall’inizio il progetto prevedeva dei momenti di apertura al pubblico in forma di performance. Il fatto di mostrare il processo di lavoro più che il risultato include anche il pubblico in questa sorta di creazione collettiva?
Il pubblico c’entra come sguardo, soprattutto. È questo che ho compreso nel corso del processo. La creazione avviene nell’isolamento, ma poi si deve mettere in relazione col mondo. Lo spettatore allora diventa portatore di uno sguardo esterno, ma allo stesso tempo partecipe di quello che sta guardando. È questa qualità che sto cercando di mettere in atto nel mio lavoro. Non cerco uno sguardo che aspetta qualcosa, ma che sia presente a quello che succede in scena, in quel momento e in quel luogo.
Lo sguardo di cui parli e che chiedi allo spettatore come ha modificato il processo di lavoro durante la creazione di “Dance n.3”?
Lo ha modificato in parte. È stato un elemento con cui sono dovuta entrare in relazione; per forza di cose mi ha portato a pormi ulteriori domande rispetto a quello che stavo facendo. Ha rimesso in circolo il mio pensare, il mio fare. C’è stata una comunicazione reciproca. Quello che mi interessava e mi interessa è trovare una qualità specifica di questa comunicazione.
Ho letto una tua frase: “Il perfomer è chi partecipa”. Ha molto a che fare con quello che stai dicendo.
Sì, infatti. E seguendo questa idea di partecipazione anche il pubblico è in qualche modo performer. Quando sono in scena ho una specificità, molto dettagliata e precisa, che va verso il fuori, verso lo spettatore. Allo stesso tempo chi guarda partecipa secondo la propria specificità. In questo senso parlo di performer. Mi piace pensare che chi viene a vedere un mio spettacolo viene prima di tutto a frequentare un luogo che, per convenzione, chiamiamo teatro. Ma è un luogo fatto di un’atmosfera, in senso quasi meteorologico, un odore, un colore: sei in un luogo che ti chiede di esserci. Non puoi andare a vedere qualcosa, sederti e aspettare di essere meravigliato. È una parola molto frequente nel teatro delle giovani generazioni, la meraviglia. Ma la trovo rischiosa perché definisce in maniera troppo netta un dentro e un fuori, riporta a un’idea di spazio teatrale tradizionalmente inteso che definisce i ruoli: spettatore e performer.
Per me è interessante che esista questa convenzione, ma trovo altrettanto interessante smussare i piani. In questo c’è uno spostamento del concetto di potere: io mi considero uno strumento e cerco di immettere con grazia qualcosa nel mondo. Dove grazia non ha un’accezione religiosa: ha più a che fare con l’idea di libertà in un luogo dato, con regole precise, come diceva Lucia Amara.
Allo stesso tempo anche gli spettatori hanno un ruolo in questo senso. Possono essere partecipanti, appunto attraverso lo sguardo che mettono in atto. Ovviamente non è un’imposizione da parte mia, è più una tensione.
Non lavorando sulla spettacolarizzazione questo atteggiamento rischia di essere frainteso, soprattutto per un certo tipo di sguardo che vuole mantenere la propria posizione.
Ecco, per questo sguardo il mio lavoro diventa concettuale, per gli addetti ai lavori. Però non è il mio punto di vista.
Nei tuoi lavori il corpo ha una duplice valenza: sei una danzatrice, quindi il corpo per te è uno strumento, però è anche l’oggetto della tua indagine.
Proprio in quanto strumento diventa un oggetto d’indagine e viceversa. È anche oggetto nel vero senso della parola: quando faccio laboratori, ad esempio, il concetto che tendo a proporre è quello del corpo come soprammobile. Bisogna prendersene cura, ma in modo soggettivo. È necessario capire come relazionarsi, come vivere questo oggetto che è il proprio corpo. L’idea è che sia una cosa tra le cose, per evitare un’idea psicologica del corpo. Che invece è materia, organica o disorganica, si trasforma, ha delle affezioni, ha un colore, un’emotività. La mia idea non è di lavorare sul sentire emotivo, ma di portare fuori, di mettere in campo la specificità di un corpo come oggetto.
Penso ancora una volta a “Dance n.3”, in cui questo pensiero è molto evidente. Uno dei punti di riferimento è stato Étienne-Jules Marey, inventore e fisiologo di fine ‘800 che ha studiato il movimento fino ad inventare uno strumento per trascriverne le fasi a scopo di studio, il cronofotografo. Oltre che da un punto di vista teorico, Marey ha contribuito anche da un punto di vista linguistico al tuo lavoro. Il fatto di utilizzare una terminologia specifica, fisiologica per parlare del corpo rientra nella tua idea di corpo come oggetto?
La mia ricerca nasce dalla necessità di trovare un linguaggio possibile per parlare del corpo, in un altro modo: un linguaggio capace di spostare anche me, quello che è il mio linguaggio. Scoprire che c’è stato un fisiologo tra fine ‘800 e inizio ‘900 che ha elaborato una scienza per studiare il movimento del sangue nelle vene è stato meraviglioso. Mi ha portato a formulare altre questioni legate al corpo: come l’energia, intesa anche come pressione sanguigna, che si muove in un certo modo e produce altra energia.
Forse sono un’artista che articola del pensiero. Mi piace e ho bisogno di collaborare con figure che affrontano le questioni che mi pongo anche da un altro punto di vista, come Lucia Amara o Stefano Tomassini o Elisa Fontana. Ognuno di loro è stato molto ricco.
Con Lucia, per esempio, durante il processo di “Dance n.3” l’incontro è stato davvero orizzontale. Non è successo, ma al punto in cui siamo arrivate una avrebbe potuto prendere il posto dell’altra: lei avrebbe potuto fare i movimenti e io parlare.
Hai avviato un altro progetto sul corpo, in un’altra ottica ancora: quella del porno. Me ne parli dal punto di vista di artista, di performer e di donna?
È un progetto che sto portando avanti. È stato molto interessante perché ci sono arrivata subito dopo la produzione e il debutto di “Dance n.3”, in quella sorta di vuoto che segue l’esordio di un lavoro così lungo e importante.
Ho avuto modo di riflettere sulle modalità produttive, su come funziona il sistema.
“Dance n.3” è stato prodotto da Romaeuropa Festival e Reggio Emilia Danza, le uniche due realtà italiane che si occupano anche di danza e che hanno possibilità produttive, seppure minime. La mia delusione è stata molto forte. È stato molto difficile, sia sul piano organizzativo che nel confronto con una critica che si pone in maniera poco interessante. I lavori vengono guardati solo dal punto di vista della spendibilità sul mercato, secondo un’ottica di cosa funziona e cosa non funziona nel sistema dato. Mi sono confrontata con una serie di questioni che mi hanno portato a riflettere, anche con una certa tensione.
Ho avuto la necessità di capire e rapportarmi con la realtà del mondo, cercando di entrarci a fondo e poi di prendere una posizione. La questione della pornografia è venuta fuori quasi immediatamente. Non l’avevo mai affrontata e non avevo neanche grandi conoscenze.
Sono partita con un desiderio: mi sono detta, sarebbe interessante se facessi la regia di un film porno. Io donna, coreografa e completamente fuori da quell’ambiente chissà cosa potrei fare. Ho cominciato a studiare, mi sono messa in un processo di ricerca confrontandomi anche con altre persone e incrociando vari piani di lettura.
E ho pensato che, se potevo, dovevo fare anche delle esperienze. Un anno fa circa ho fatto una sessione di lap dance in un locale fiorentino, facendomi pagare per ballare due ore intorno a un palo sul bancone di un bar. Una situazione che sapevo di poter sostenere.
Poi ho avuto un incontro con un porno-attore gay, di cui sono diventata amica e che ho frequentato per un periodo.
Insomma mi sono messa in un percorso di ricerca, di studio e anche di esperienze di vita.
Come hai organizzato tutto questo materiale nella performance “Ex/porno”, che ha debuttato al Festival Transito di Firenze lo scorso agosto?
Ho fatto una performance-lecture, cioè una performance conferenza all’ EX 3, uno spazio di arte contemporanea molto interessante. In pratica ho raccontato quelli che all’epoca erano i miei primi otto mesi di avvicinamento alla pornografia. Ho proprio utilizzato la forma del racconto. La dimensione del corpo che ho messo in atto in questa performance è molto semplice ma allo stesso tempo efficace. Ho registrato il mio racconto, la durata è di un’ora e un quarto circa, usando un registratore molto basico, con tutte le sporcature del momento.
Comincio dicendo “Buonasera” e spiego perché mi interesso alla pornografia: il pubblico sente la mia voce registrata e io sono seduta a un tavolo, davanti a loro, come se stessi parlando dal vivo. Il mio computer è collegato a un videoproiettore: mostro agli spettatori una serie di scritti che ho raccolto, delle immagini e faccio anche delle azioni.
Tutto quello che metto in campo non parte da una presa di posizione sulla pornografia, è il mio sguardo che entra in un argomento e lo attraversa. Ovviamente dico delle cose fra le righe, non è un attraversamento neutrale: sono io che scelgo cosa mostrare e come portare avanti il discorso.
Ma ancora una volta non si tratta di un prodotto finito. È un processo di studio: la seconda volta che l’ho fatto al Festival Danae di Milano era diversa dalla prima. Ci sono delle evoluzioni, cambia il modo in cui ne parlo e questo mi piace molto. Chissà poi che non riesca a farlo per davvero un film su questo, alla fine.
L’ultima domanda riguarda l’altra modalità con cui sei stata presente a Bologna in questi giorni. Hai condotto un workshop con gli studenti dell’università. Come ti relazioni a questo tipo di esperienza?
Mi piace condurre workshop, ma non ne faccio molti perché sono in un momento davvero intenso di lavoro. Non lavoro su una metodologia, né su una didattica in senso specifico.
Sono atti performativi anche per me, ovviamente con un’altra qualità rispetto allo spettacolo. Mi mettono molto in gioco perché l’andamento dipende da chi ho di fronte. Qui a Bologna, ad esempio, il gruppo era molto eterogeneo: erano molto giovani, con qualche esperienza, ma ancora legati ad un’immagine di un certo tipo della danza.
La mia proposta non è nella modalità di una lezione di danza tradizionale. Partecipo come guida, faccio proposte, propongo esercizi: più che altro lavoro sull’intenzione del movimento. Così si vengono a creare spazi di dialogo fortissimi, sia tra i corpi durante il lavoro che successivamente, con le parole.
Da più di un anno sto lavorando sulla questione dell’invenzione del proprio corpo, del proprio sé nel senso di acquisire una consapevolezza politica, proprio come dicevo prima. Capire e indagare che cos’è un corpo che sta al mondo da un punto di vista pratico, essere consapevoli di cosa si fa e di come lo si fa. Anche nell’ambito di un workshop le questioni sono sempre quelle: la qualità della partecipazione al qui e ora, come arrivare a produrre un’energia trasmissibile a qualcun altro.