Macabre tinte ironiche segnano la tragedia di Beatrice Cenci, giovanissima eroina di cronache lontane nel tempo. Giustizia e vendetta. Vita e morte. Innocenza e peccato. Vittima e criminale. Tesi e antitesi. Dicotomia storica, sociale, spirituale. Poli di un ambito terribile: la beffa.
Beatrice Cenci, sedici anni appena, è vittima di un padre “assoluto”, violentatore di tutto ciò che aveva vita.
Lei, criminale per aver tentato la salvezza, macchiandosi del sangue del suo carnefice, viene assolta in “articulo mortis” prima del colpo del boia. Perdonata ma condannata. Liberata dal peccato non per “immersione” ma per morte.
“Tutto muore perché il mondo arde incerto tra il bene e il male”, pronuncia la giovane quando le viene confermata la sentenza.
Fatto di cronaca, si vorrebbe dire, di tempi andati – parliamo del 1599 -, ma anche di quotidiani freschi di stampa, e allora avvenimento che tocca l’attualità più intrattabile, quella della violenza e dell’ingiusta giustizia.
La storia drammatica, soggetto e oggetto di eccellenze di calamaio, pennello e pellicola, mito diffuso in tutta Europa, viene riportata a nuova vita dalla pièce scritta a quattro mani dall’attore Carlo Simoni e dal critico teatrale e giornalista Roberto Rinaldi.
Come a suo tempo fece Stendhal nelle sue “Historiettes”, anche i due autori preferiscono tradurre fedelmente la cronaca dei fatti, gli atti del processo, raccontando la storia senza ricorrere ad effetti “speciali” e scenografie complicate, ma affidandosi alla nuda concretezza della testimonianza, amara e tagliente.
La regia sceglie quindi pochi elementi, essenziali, affidandosi ad una scenografia di immagini pittoriche – molte delle quali dipinte con grande maestria dallo stesso Simoni – che divengono evocazioni, inquadrature astratte di interni ed esterni della vicenda.
Ecco allora che, mentre nel fondo della scena si staglia il melanconico candore del volto della Beatrice Cenci di Guido Reni, dietro al leggio, Carlo Simoni, con l’eleganza e la padronanza del primo attore, guida, trattiene e sottolinea la tragedia: la bestialità “dell’amore paterno”, la miopia religiosa, la disumanità della giustizia.
Efficace contraltare di una struttura narrativa altrimenti fin troppo semplice e lineare, è l’entrata in scena a più riprese della giovane Antea Magaldi che, superando l’impasse di una carica iniziale eccessiva, a rischio “maniera”, acquisisce poco alla volta consapevolezza e drammaticità, restituendo una Beatrice lieve e rabbiosa, spaventata e coraggiosa, eroica e martire, che alterna candore e dolore.
Bisogna senz’altro dire che il lavoro necessita di ulteriori sviluppi, di un deciso affondo (d’altra parte gli stessi autori parlano di un work in progress), e si avverte la necessità di vedere spezzata l’eccessiva meticolosità testuale, l’effetto “notiziario”.
Le possibilità per farlo ci sono, la vicenda le offre tutte con le sue tinte noir, i colpi di scena, e le forti e labirintiche personalità dei protagonisti che hanno tessuto il mito nel corso del tempo. In particolare Beatrice, così innocente nell’età eppure irremovibile e matura nel suo “accettare il delitto ma negare la colpa”, nonostante le torture che le spezzano le braccia. E Francesco Cenci, padre dissoluto, diabolico re nel suo regno, dittatore delle sue non leggi, onnipotente bulimico, giudice di Dio, unico colpevole della bestialità dei suoi atti perché: “L’ha fatto padre di un essere che tutto lo spinge a desiderare”.
Quasi una lotta neoplatonica tra angeli e demoni, gli uni come gli altri, “parenti” di un mondo “altro” per niente dissimile al nostro, di cui per un attimo, sul patibolo, la giovane Beatrice sembra essere attraversata: “Chi mi garantisce che, laggiù, non troverò mio padre? Questo pensiero mi rende più amara la morte. Perché ho paura che la morte mi riveli che assomiglio a mio padre”.
CRONACA DI UNA TRAGEDIA. BEATRICE CENCI: IL MITO
di: Carlo Simoni e Roberto Rinaldi
con: Carlo Simoni e Antea Magaldi
durata: 50′
applausi del pubblico: 1’ 15’’
Visto a Vittorio Veneto (TV), Teatro Da Ponte, il 2 dicembre 2011